domenica 29 gennaio 2012

Continuità dei parchi

Aveva incominciato a leggere il romanzo alcuni giorni prima.
Lo abbandonò per affari urgenti, tornò ad aprirlo mentre rientrava in treno al podere; si lasciava interessare lentamente dalla trama, dal disegno dei personaggi. Quella sera, dopo aver scritto una lettera al suo procuratore e aver discusso con il fattore una questione di mezzadria, tornò al libro nella tranquillità dello studio che si apriva sul parco di roveri.
Sdraiato nella poltrona preferita, dando le spalle alla porta che lo avrebbe infastidito come una irritante possibilità d'intrusioni, lasciò che la mano sinistra carezzasse più volte il velluto verde e si mise a leggere gli ultimi capitoli. La sua memoria riteneva senza sforzo il nome e le immagini dei protagonisti; l'illusione romanzesca lo conquistò quasi subito. Godeva del piacere quasi perverso di staccarsi di riga in riga da ciò che lo attorniava, e di sentire al tempo stesso che la testa riposava comodamente sul velluto dell'alto schienale, che le sigarette erano sempre a portata di mano, che al di là delle vetrate danzava l'aria del crepuscolo sotto i roveri.
Di parola in parola, assorto nel sordido dilemma degli eroi, lasciandosi andare verso le immagini che si componevano e acquistavano colore e movimento, fu testimone dell'ultimo incontro nella capanna sul monte. Prima entrava la donna, guardinga; adesso arrivava l'amante, la faccia ferita dalle sferzate di un ramo. Ammirevolmente lei tamponava il sangue con i suoi baci, ma lui rifiutava le carezze, non era venuto per ripetere le cerimonie di una segreta passione, protetta da un mondo di foglie secche e di sentieri furtivi. 
Il pugnale si intiepidiva contro il suo petto, e sotto pulsava acquattata la libertà. Un dialogo ansioso scorreva per le pagine come un ruscello di serpi, e si sentiva che tutto è deciso da sempre. Persino quelle carezze che avviluppavano il corpo dell'amante quasi volessero trattenerlo e dissuaderlo, disegnavano abominevolmente la figura di un altro corpo che era necessario distruggere. Niente era stato dimenticato: alibi, circostanze, possibili errori. 
A partire da quell'ora, a ciascun istante era minuziosamente fissato il suo impiego. Il duplice spietato riepilogo si interrompeva appena per permettere che una mano carezzasse una gota.
Cominciava ad annottare.
Senza neppure più guardarsi, legati strettamente al compito che li aspettava, si separarono sulla porta della capanna. Lei doveva proseguire per il sentiero che andava verso nord. Dal sentiero opposto lui si voltò un istante per vederla correre con i capelli sciolti. Corse anche lui, proteggendosi contro gli alberi e le siepi finché distinse nella bruma malva del crepuscolo il viale che conduceva alla casa. I cani non dovevano latrare, e non latrarono. Il fattore non doveva esserci a quell'ora, e non c'era. Salí i tre scalini del porticato ed entrò. Dal sangue che gli galoppava nelle orecchie gli giungevano le parole della donna: prima una sala turchina, poi una galleria, una scala con tappeto.
Al piano superiore, due porte.
Nessuno nella prima camera, nessuno nella seconda.
La porta del salotto, e allora il pugnale in mano, la luce delle vetrate, l'alto schienale di una poltrona di velluto verde, la testa di un uomo nella poltrona che sta leggendo un romanzo.

Julio Cortàzar  "Bestiario"


Maurits Cornelis Escher "Mani che disegnano"
 

martedì 24 gennaio 2012

Andarsene



There will come soft rains

There will come soft rains and the smell of the ground,
And swallows circling with their shimmering sound;

And frogs in the pools singing at night,
And wild plum trees in tremulous white;

Robins will wear their feathery fire,
Whistling their whims on a low fence-wire;

And not one will know of the war, not one
Will care at last when it is done.

Not one would mind, neither bird or tree,
If mankind perished utterly;

And Spring herself, when she woke at dawn
Would scarcely know that we were gone.


Cadrà dolce la pioggia

Cadrà dolce la pioggia e si diffonderà il profumo della terra,
Le rondini voleranno in cerchio stridendo,

Le rane negli stagni canteranno la notte.
E i pruni selvatici, biancheggeranno tremuli, 

I pettirossi indosseranno le loro piume infuocate
fischiando i loro lamenti sugli steccati.
 
E nessuno saprà della guerra, a nessuno
importerà della sua fine.
 
Nessuno, uccello o albero, si preoccuperà
dell’umanità morente.
 
E la stessa primavera, quando si sveglierà all' alba
a malapena si accorgerà che ce ne siamo andati.

Sara Teasdale 


Le cose

Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e gli scacchi,
un libro, e tra le pagine appassita
una viola, monumento d'una sera
di certo indimenticabile e dimenticata,
il rosso specchio a occidente in cui arde 
illusoria un'aurora. Quante cose, 
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi, 
ci servono come taciti schiavi, 
senza sguardo, stranamente segrete!
 
Dureranno più in là del nostro oblio; 
non sapranno mai che ce ne siamo andati.

Jorge Luis Borges


Stanotte se n'è andato Amedeo.

venerdì 20 gennaio 2012

Ballando ballando

                                              
Piove senza interruzioni da due giorni, e l'acqua ha trasformato le traverse di Montmartre in un intrico di ruscelli fangosi.
I rivoli s’incrociano, ingrossano, acquistano velocità e si trasformano in grigie cascatelle mormoranti giù per i gradini della lunga scalinata dove arranca Maùrìce, il bavero dell'impermeabile alzato sotto l'ombrello grondante.
Cammina con passo veloce, leggermente piegato in avanti, gli occhi attenti a scansare almeno le pozzanghere più grosse, nelle quali si riflette la luce tremolante dei lampioni che illuminano la strada lucida di pioggia.
E' in ritardo Maùrice, e lo sa. E gli secca tremendamente essere in ritardo, ma gli secca ancor di più il programma che lo aspetta: accompagnare Thérèse alla serata inaugurale del corso di danze popolari al Circolo Floriàn.
Qualsiasi tentativo di evitare quello spiacevole impegno é fallito. Thérèse ci tiene tanto che lui l'accompagni almeno per una volta, visto che negli ultimi tre anni glielo ha chiesto inutilmente.
Il fatto é che Maùrice non é assolutamente interessato alla danza in qualsiasi sua forma, per di più ha conosciuto diversi amici di Thérèse che frequentano quel corso, e non gliene é piaciuto uno che fosse uno.
Tipi del tutto particolari, pensa mentre svolta in Rue Sainte Cécilie, o forse solo un tantino estrosi, fatto sta che il più normale gli era sembrato da ricovero immediato.
Un rivolo d'acqua gelida gli scende giù per il collo, ma per fortuna al portone di Thérèse non mancano che pochi metri. Sale i quattro gradini fino all'ingresso e suona al citofono. Non c’è risposta, ma la serratura elettrica del portone scatta e lui si trova finalmente al riparo. Sarebbe così bello se stasera non si dovesse uscire sotto la pioggia. Si potrebbe rimanere in casa ad ascoltare quel nuovo cd di Zubìn Mehta, magari accoccolati sul divano con un plaid sulle gambe e una tazza di cioccolato bollente tra le mani.
L'ascensore di legno che lo conduce al quarto piano, cigola e scricchiola come se da un momento all'altro dovesse aprirsi in quattro parti. La porta sul pianerottolo é solo accostata. Dall'interno si diffonde il profumo della cioccolata che per un attimo lo lascia sperare in un contrattempo, in uno di quegli insignificanti ostacoli così capaci di modificare le decisioni femminili, e che magari potrebbe aver sconvolto i piani di Thérèse. Entra, gli dice lei, vieni a vedere che cosa ho preparato, e lui entra, si avvia per il corridoio fino in cucina, e guarda, e vede che sul tavolo c'è un’enorme torta al cioccolato pronta per essere incartata.
La voce di Thérèse gli arriva dal bagno, lo tranquillizza che non deve preoccuparsi se sono un pochino in ritardo, in queste occasioni non bisogna mai arrivare per primi. Se solo lui potesse incartare la torta, perché lei adesso si sta truccando e non vorrebbe sporcarsi di nuovo le mani di cioccolato. Maùrice chiude gli occhi rassegnato. Ora gli toccherà anche portare la torta lungo tutta la strada, bilanciandola in precario equilibrio tra l'ombrello e la pioggia e Thérèse con i tacchi alti e le pozzanghere e gli schizzi delle auto che passano.
Ma infine ci arrivano al Circolo Floriàn, inzuppati come due spugne, la carta che avvolge la torta é tutta bagnata e si appiccica al cioccolato, le sue scarpe si sono infradiciate come quelle di Thérèse, meno male che lei si é portata quelle basse per poter ballare, altrimenti la serata sarebbe rovinata. E infatti se le mette le scarpe con il tacco basso, e si avvia incontro ai suoi amici che le fanno di lontano grandi cenni di saluto, e lo lascia lì a gocciolare nella sala d'ingresso, con l'ombrello zuppo in una mano e la torta al cioccolato nell'altra.
Il pavimento del salone del Circolo Floriàn é un parquet di listoni di legno chiaro su cui qualcuno già volteggia impaziente, nell'attesa che arrivi il resto della compagnia. Thérèse, a differenza di Maùrice é completamente a suo agio, passa cinguettando da un abbraccio ad un bacio a un gridolino di meraviglia, ma bisogna capirli, non si vedono da più di sei mesi e prima danzavano insieme tutte le settimane; quell'intimità interrotta deve adesso rinnovarsi, riprendere consistenza. Lei gli presenta persone, ma Maùrice non memorizza i nomi, nemmeno qualcuno che dovrebbe essergli noto dato che diversi di loro sostengono di ricordarsi di lui, il che vorrebbe dire che deve averli conosciuti, o forse solo incontrati, o almeno visti, o più probabilmente soltanto immaginati.
Ma la mia immaginazione, pensa Maurìce, é molto povera, se davanti ai suoi occhi il campionario di umanità parigina sembra assortirsi senza limiti alla fantasia. L'abbigliamento, coloratissimo, va dal classico al totalmente stravagante, passando per lo zingaresco e il dark, fino all'elegante e al finto-povero. La gran parte dei partecipanti alla serata inaugurale del corso di danze popolari del Circolo Floriàn sembra essersi travestita da partecipante alla serata inaugurale del corso di danze popolari del Circolo Florìan.
Maùrice é perplesso, gli viene da chiedersi perché tutti questi bravi borghesi ci tengano tanto a imparare balli che neppure i contadini fanno più. Danze popolari italiane, greche, turche, maghrebine o del Ghana. Ci sono persino dei neri che sono venuti a imparare le loro stesse danze tradizionali da insegnanti bianchi...
Ma tutto sembra naturale nell'anomala normalità del Circolo Florìàn.
Solo Maùrice si sente a disagio per la sua incapacità di fondersi in quell'amalgama di diversità e si tiene in disparte, vicino ai i tavoli sui quali ciascuno dei partecipanti ha poggiato la sua torta al cioccolato con l'incarto bagnato.
E' arrivata molta gente, qualcuno ha messo su un disco e si comincia a ballare. Thérèse lo invita ad unirsi alla prima quadriglia, ma lui le fa cenno di non voler partecipare. Preferisco stare a guardare le dice, e lei sembra sinceramente dispiaciuta, dice ti annoierai, ma Maùrìce sa che in fondo si sente sollevata di non dover condizionare il proprio comportamento al suo. E infatti non insiste, gli regala un ultimo sorriso e poi corre ad insinuarsi in una fila di danzatori che s’incrocia con un'altra.
La prima cosa che colpisce Maùrice é il carattere sinceramente democratico di una danza in cui tutti ballano con tutti, a differenza di  quelle in cui ciascuno si sceglie un compagno fisso. Età, razza, sesso e aspetto fisico sembrano essere tutte caratteristiche ininfluenti ai fini della riuscita del ballo. I danzatori corrono, saltano, pestano e battono forte i piedi, facendo vibrare tutta la struttura dell'impiantito. Si affrontano, s’intersecano, sbattono gli uni contro gli altri e intanto ridono e si lasciano andare, i movimenti si fluidificano, si sciolgono in un'unica armonia. Non gli ci vuole molto a capire che la danza é comunicazione non verbale allo stato puro. Linguaggio del corpo, e come tale essenziale ed eloquente. Comunque con il rumore a quel volume, anche volendo, qualsiasi comunicazione tra i ballerini diversa da quella gestuale sarebbe impossibile.
La musica é ripetitiva, assordante, trasmessa da un unico vecchio altoparlante amplificato nel quale ogni tono scompare, omogeneizzato in un solo ululato gracchiante.     
Maùrice adesso osserva i movimenti, semplici, ritmati, che addirittura gli sembrano spontanei. Alcuni, pochi, ballano da soli, ma é solo un prendere la rincorsa in cerca dell'affiatamento, una tensione al sincronismo dei movimenti, ancora un attimo e s’impegneranno con passione insieme agli altri nella complessità della danza, che é cosa unitaria, corale, fatta di gesti unìvoci e unìsoni. Maùrice mangia un pezzetto di torta al cioccolato, e coca cola fredda, il suono é troppo forte, lo stordisce, ma non sembra confondere i ballerini che ora si muovono sempre più velocemente. I balli si susseguono senza interruzione, sono passate già più di due ore e nessuno dei presenti sembra essersene accorto, e anche Maùrice non é stanco, anzi é coinvolto, avvinto, cerca con gli occhi Thérèse, vorrebbe parlarle, forse chiederle di insegnargli. Il ritmo adesso é più potente, le catene di danzatori che si tengono per mano inanellano un cerchio dopo l'altro, tornano indietro, oscillano e si mescolano come un'onda di corpi, come un animale vivo che si contorce, si avvolge e si dipana. Serpente, lombrico lucido, flusso di marea ritmato da nàcchere, battito di mani, a grumi, a grappoli. Nell'aria si diffonde l'odore acre del sudore, di corpi accaldati, le guance sono infiammate, i muscoli doloranti. A Maùrice in certi momenti sembra una scena apocalittica, un amplesso totale, un coito universale. Movimenti iterativi, promenades, scambi di compagno, tutto si riflette nel grande specchio sulla parete che moltiplica il movimento, raddoppia l'enfasi dei gesti.  Davanti a lui un muro di schiene si apre, scorge per un attimo Thérèse, ma subito l'onda si richiude e si avvolge per poi tornare a riaprirsi come il soffietto di una fisarmonica, e Thérèse non c'è più, inghiottita dai flutti di quei corpi in tempesta. Vorrebbe tuffarsi per agguantarla, ma la marea lo sospinge verso il margine della sala, lo schiaccia quasi contro il muro e poi improvvisamente si ritrae, il serpente di danzatori si snoda e si scioglie in piccoli rivoli simmetrici che scorrono lungo i lati del salone, scivolando e rimbalzando contro le pareti per tornare ad unirsi ancora. La musica adesso raggiunge un'intensità parossistica. Il ritmo dei piedi che schiaffeggiano il pavimento l'invoglia a muoversi, si accorge che pur non volendo le sue mani portano il tempo battendo sulle cosce, mentre la cadenza dei colpi di tamburo cresce, diventa il suono del suo cuore in tumulto, della corsa per la salvezza fatta milioni d’anni fa quando qualcosa c’inseguiva nel buio e gli unici rumori nella notte erano il pulsare del sangue alle tempie e l'ansito di belva alle nostre spalle.
E' un battito ancestrale quello che percuote le pareti della sala, e il viluppo dei danzatori risponde come un muscolo solo alla scansione dei colpi. E' un tentacolo gigante quello che si divincola e si torce al suono della musica antica, lucido della bava di corpi madidi di sudore, e si aggroviglia e si scioglie, si annoda e si srotola trascinando i danzatori rimasti invischiati che non possono opporre resistenza ai suoi convulsi movimenti. Maùrice é attirato e spaventato, vorrebbe riuscire a trovare il coraggio per fuggire o rassegnarsi alla vigliaccheria ed entrare e perdersi nel cerchio della danza, farsi avviluppare e sommergere dalla musica senza pensare, senza capire.
In quel momento, in un'inaspettata fenditura creatasi tra i corpi in movimento, scorge di nuovo Thérèse e anche lei lo vede. Ha il vestito strappato alla spalla, la bocca sporca di rossetto sbavato e un rivolo purpureo le scende sul mento, lungo il collo. Gli occhi sono lucidi, le guance di fuoco, sembra febbricitante. Protende verso di lui le braccia nude non capisce bene se per invitarlo a raggiungerla o per supplicarlo di salvarla, solo si accorge che come le labbra, anche le sue mani sono imbrattate. E' sangue, nero e raggrumato sotto le unghie. Maùrice é impietrito, la bocca spalancata, poi all'improvviso si scuote, con uno scatto raggiunge la porta e corre giù per le scale e inciampa e cade e finalmente esce in strada nella pioggia, nell'acqua, e ancora gli dolgono i timpani, ancora gli risuona nelle orecchie la musica ossessiva dei danzatori.





 

domenica 15 gennaio 2012

Parole

Quando anche l’ultimo avventore fu andato via, Anna spense lo stereo, uscì da dietro il bancone ed andò a chiudere la porta del locale.
Nella penombra della sala non si accorse di una frase rimasta a mezz’aria, che le si infilò fra i capelli fastidiosamente. La tirò via gettandola sul pavimento, tanto di lì a poco avrebbe passato l’aspirapolvere. E in effetti ce n’era proprio bisogno, il locale di sabato era sempre affollato ed anche quella sera i clienti erano stati numerosi. La sua collega aveva smontato dal turno a mezzanotte e adesso a lei toccava almeno un’altra ora di lavoro per sistemare le cose principali.
Infilò i guanti di gomma e armata di straccio e spugna cominciò a fare il giro dei tavoli.
Sgomberò dai boccali e dai piatti, tirò via le parole più serie che erano rimaste attaccate come concrezioni marine fra gli aloni bagnati lasciati dai bicchieri, e le mise in un sacchetto di plastica che si era legato in vita. Quello doveva essere il posto dove era seduto l’assessore Guidi con un gruppo di suoi sostenitori, e c’erano parole e frasi pesanti che erano scivolate per terra e formavano un bel mucchio sotto le sedie. Accanto, al tavolo da dodici dove alcuni ragazzi avevano festeggiato un compleanno, c’erano mucchi di canzoni dappertutto, persino attaccate alle pareti.
Anna lavorava veloce, con la forza della stanchezza.
Per terra c’era di tutto.
Parole untuose e melliflue da adulatore, difficili da maneggiare, schifose, che si attaccano tra le dita e parole dure, taglienti, spinose, da prendere con i guanti spessi per non farsi male.
A mezz'aria, sopra la sua testa, discorsi di ragazzi, frasi leggere che erano volate sotto al soffitto e si erano impigliate come zucchero filato ai lampadari. Avrebbe dovuto prendere la scala e avvolgerle come ragnatele con lo scopettone per tirarle via.
E ce n’erano di rosse di rabbia, o verdi di speranza, gialle e rosicchiate dall’invidia o nere di disperazione, parole sincere, limpide, trasparenti, da guardare come in un caleidoscopio colorato, tintinnanti e fragili come cristalli, o false e scure come di piombo fuso.
Parole d’amore rosa fino a bisbigli osceni color porpora, e bugie difficili da dipanare, intricate frasi che ne contengono altre all’interno, nascoste, oscure, pesanti e goffe da maneggiare.
Frasi sospese, ambigue, che si disfano al solo toccarle, fluttuanti, eteree come un vapore, impalpabili come talco, polverose, vecchie, stantie come di scorza, sugherose come di corteccia.
Parole di odio, disgustose, maleodoranti e nere marcite che parlano di malattia e di morte.
Quella era la parte della giornata che detestava, ma era lì ad aspettarla tutte le sere. Il sacco si era riempito rapidamente.
Prese l'aspirapolvere dal ripostiglio e incominciò a passare tra i tavoli rovesciandoci sopra le sedie mano a mano che procedeva, cercando di non pensare a niente, ascoltando solo la stanchezza del suo corpo. Lavorava di buona lena, desiderosa soltanto di terminare e andare a casa.
Il locale apriva solo di sera, avrebbe avuto tutta la mattina successiva per lavare a dovere il pavimento e le stoviglie.
Si fermò un istante, appoggiata a un tavolo, cercando di ricordare il motivo di una canzone che aveva in mente poco prima, ma non ci riuscì.
Provò a raccogliere delicatamente senza romperle, alcune parole dolci da innamorati che si frantumarono in cristalli zuccherini appena le toccò.
Sospirando si avviò verso il retro, si sfilò i guanti e il grembiule e mise fuori i sacchi dell' immondizia.
Quand'ebbe finito di sistemare, spense le luci e chiudendosi la porta alle spalle, finalmente uscì fuori nel silenzio della notte.




martedì 10 gennaio 2012

This must be the place


Ieri ho visto il bellissimo film di Paolo Sorrentino "This must be the place"








L'atmosfera rarefatta dei paesaggi americani mi ha ricordato la luce di certi quadri di Hopper o di Jack Vettriano.




 
La sensazione di estraniamento procurata dalla maschera grottesca del personaggio con la sua valigia/carrello trascinata tra i paesaggi americani era forse ancora più evidente in quei luoghi/non luoghi urbani come aeroporti, sale d'attesa, supermercati e centri commerciali.




Non dissimilmente dal precedente film "Le conseguenze dell' amore" in cui alcuni interni silenziosi d' albergo uniti alla mancanza di dialoghi, restituivano la fissità plastica e silenziosa tipica di alcune ambientazioni del pittore americano.



Esistono molte maniere di morire, la peggiore è rimanendo vivi......


Colonna sonora strepitosa 








domenica 8 gennaio 2012

Squonk

A proposito di animali particolari, nel suo "Manuale di zoologia fantastica" J.L. Borges, riporta un brano con la descrizione dello squonk (Lacrimacorpus Dissolvens), quassù raffigurato dopo la cattura.....


"La zona dello squonk è molto limitata. Fuori dalla Pennsylvania poche persone ne hanno sentito parlare, benchè nelle cicutaie di quello stato sembri abbastanza comune.
Lo squonk è di tinta molto cupa e in genere si muove all'ora del crepuscolo. La pelle, che è coperta di veruche e di nei, non gli calza bene; a giudizio di tutti i competenti è il più sfortunato fra tutti gli animali. Rintracciarlo è facile, perchè piange continuamente e lascia una traccia di lacrime. Quando lo pressano da vicino e non può fuggire, o quando lo sorprendono e lo spaventano, si dissolve in lacrime. I cacciatori di squonks hanno più fortuna nelle notti di freddo e di luna, quando le lacrime cadono lente e all'animale non piace muoversi; il suo pianto s'ode sotto i rami degli oscuri arbusti di cicuta.
Il sig. J.P.Wentling, già di Pennsylvania, e ora residente a St. Antony Park, Minnesota, ebbe una triste esperienza con uno squonk nei pressi di Monte Alto. Aveva imitato il pianto dello squonk e aveva indotto l'animale ad entrare in una borsa, che ora stava portando a casa, quando all'improvviso il peso s'alleggerì e il pianto smise. Wentling aprì la borsa: non restavano che lacrime e borboglìo."

WILLIAM T. COX, Fearsome Creatures of the Lumberwoods, Washington 1910


La storia viene ripresa e immortalata più recentemente (1976) dai Genesis in uno dei miei brani preferiti:


sabato 7 gennaio 2012

La sposa


La sposa ha l’aria stanca, starà già pregustando il momento in cui potrà togliersi le scarpe, lo sposo sembra che fosse già stufo ancora prima di cominciare. Il fotografo è l’unico che pare felice, urla sbraita e si sbatte incoraggiandoli a baciarsi, guardarsi negli occhi o prendersi per mano con Nisida sullo sfondo.
La giornata è meravigliosa, la pioggia e la tramontana di ieri hanno lasciato l’aria pulita, tersa, la luce inonda le cose che hanno colori vividi, saturi.
Il vento forte scuote i pini marittimi del parco Virgiliano, (alzale il velo!, falla girare, così brava, guarda da questo lato!) che mandano una fragranza di resina.
Il rumore del mare che sbatte giù giù sotto il costone a tratti è coperto dal fruscio dei rami (baciala!, baciala!, sorridi, bene così…)
Due ragazzi sono cocciutamente seduti sul parapetto e anche se il vento a raffiche gli spettina i capelli e li spinge alle spalle, e sono infreddoliti, e sono intirizziti, nessuno dei due vuol mollare per primo e dire spostiamoci di qui non ce la faccio più ho freddo.
Qualcuno ha portato il cane a fare un giro, altri corrono lentamente, quasi passeggiano, gli auricolari nelle orecchie. L'atmosfera è rotta (!) solo dal fotografo esaltato che continua a gridare bravi, forza ragazzi, ancora una, facciamo l’ultima e andiamo a mangiare.
Le damigelle come la sposa hanno il vestito bianco, scarpe bianche, calze bianche, viso bianco da congelamento. Tacchi alti, spacchi e scollature delle grandi occasioni. I maschi di contorno un po’ scaciati, abiti acquistati per l’occasione o prestati, forse noleggiati.
L’odore del mare arriva forte, il vento è teso, rinforza, i gabbiani che si librano nell’aria a volte sembrano fermi, sospesi, sostenuti dal niente, poi all’improvviso compiono picchiate vertiginose verso la spiaggia di Coroglio.
Ora che l’allegra compagnia dei fotografi e damigelle e parenti si è allontanata, l’unico rumore che resta è quello delle onde confuso col fruscìo delle piante.
Adesso una nuvola ha coperto il sole, il vento sembra ancora più freddo, ho voglia di un caffè.
L’odore dei pini è mescolato alla salsedine, all’erba ancora bagnata di ieri, lentisco e rosmarino, eucalipto e ginestra. Oltre Capo Misero la sagoma bassa di Procida, e dietro Ischia che sembra di poterla toccare. Un tizio che corre non rinuncia a controllare il cellulare. Nel tirarlo fuori dalla tasca perde una moneta da 2 euro. La raccolgo e lo chiamo. Non mi sente, ha la cuffietta nelle orecchie. Più tardi lo rincontro, ci guardiamo in viso, è sudato come un cavallo, ansima e controlla il telefonino. Non so perché ma non mi va più di dargli i suoi soldi, me li tengo per il caffè.

giovedì 5 gennaio 2012

Edward Gorey

Probabilmente l'illustratore Edward Gorey possedeva una mancuspia, che gli avrà ispirato questo disegno ed anche una delle sue storie più famose:
" L'ospite equivoco" pubblicata da Adelphi.

mercoledì 4 gennaio 2012

Julio Cortàzar





Dobbiamo la scoperta delle mancuspie al genio di quest' uomo la cui rilettura non smetterà mai di sorprendermi ed inquietarmi......




In quest'altra istantanea è ritratto con una delle mancuspie che allevava nel giardino di casa.....

Mancuspie

Curiamo le mancuspie fino ad abbastanza tardi, adesso con il caldo dell'estate sono piene di capricci e di versatilità, le meno sviluppate richiedono alimentazione speciale e portiamo loro avena e malto in grandi zuppiere di maiolica; le adulte stanno cambiando il pelo della schiena per cui è necessario tenerle separate, mettere loro una gualdrappa e stare attenti che non si uniscano di notte con le mancuspie che dormono nelle gabbie e ricevono il cibo ogni otto ore.
Julio Cortàzar, Cefalea, Einaudi editore.

domenica 1 gennaio 2012

Forse


Forse ti sei addormentato senza accorgertene mentre facevi il bagno, carezzato dai getti dell'idromassaggio, e la sensazione che hai adesso è quella solita, che provi tutte le volte che ti riaddormenti, la mattina, quando lei esce e tu senti la porta d’ingresso che si chiude e sai che il caffè bollente è lì sul comodino, ma non riesci a svegliarti del tutto, non riesci a muovere un solo muscolo e sogni d’essere sveglio, ma immobilizzato, trattenuto dal letto, affondato nel cuscino e con un’oppressione nel petto che t’impedisce di gridare.
Ma tu lo sai che è solo un sogno, sai che se riuscissi a spostare quel piede o ad aprire la bocca ti sveglieresti e tutto sarebbe come lo immagini ora, i tuoi vestiti sulla sedia, la carta da parati a fiorellini rosa, la finestra socchiusa che lascia filtrare il rumore del traffico del sabato mattina, il caffè fumante accanto alla sveglia e tu di nuovo vivo.
Stavolta però è diverso, non senti quell'angoscia dentro di te, e il desiderio di svegliarti é vago come un ricordo, perché è piacevole questo bagno caldo e questo movimento del mare come una risacca che ti spinge e ti culla lontano dal fondo freddo e buio.
E' bello starsene appena sotto il pelo delle onde con i raggi di luce che trafiggono l'acqua davanti a te perdendosi nel blu e la schiena riscaldata dal sole, nel silenzio, a guardare la prateria di posidonie che ondeggia come un mare sotto il mare.
Lontano senti come un campanello che suona, probabilmente il telefono o la porta, ma attraverso la parete del bagno i rumori arrivano confusi e forse, pensi, anche ovattati dal vapore che ormai satura la stanza e si condensa in minuscole goccioline sullo specchio e sul tuo viso mescolandosi al sudore.
Il sole è sparito e l'acqua ora è verdastra e fredda, ostile, sembra quasi opporre resistenza al tuo passaggio, pesarti addosso mentre t’immergi lentamente verso il fondo.
Un'ombra veloce passa al tuo fianco e sparisce nell'acqua torbida. Un lampo ti percorre il dorso e ancora una volta la caccia comincia; come sempre rapidissima, guizzante, crudele, dall'esito scontato: un frullare di sangue e di pinne, denti come lame, la carne si apre, cede, il pesce si scuote, è grosso, ti sbatte sul muso, lo inghiotti ancora vivo.
Qualcosa di duro sotto la nuca.
La spugna che avevi messo sotto la testa è scivolata via e ora sei appoggiato direttamente sul bordo della vasca, i muscoli del collo sono intorpiditi e le spalle ti dolgono.
Forse è ora di aprire gli occhi e di tirarsi su ed asciugarsi, radersi, vestirsi, saranno quasi le otto e alle otto e mezza Anna verrà a prenderti per uscire e certo non vuoi farla aspettare.
Il fondo della vasca però ora sembra scivoloso, come coperto di melma, senti che le posidonie ti si sono attaccate ai piedi e fai fatica a tirare in alto le gambe, un braccio scivola sotto il corpo costringendoti ad una rotazione, la faccia contro il bordo di porcellana e il respiro un po' affannato.
Non hai voglia di tornare sotto per strapparti le alghe dalle gambe, ma devi farlo, perché senti che c’è qualcosa sul fondo della vasca che si agita e striscia e sbatte mentre cerca di tirarti giù graffiandoti le cosce con la sua pelle ruvida e gommosa.
E' ridicolo, pensi, non può esserci niente nel mio bagno, niente che ti possa avvinghiare alla vita e stringerti fino a fati mancare il fiato. Il fatto è che così girato, con la faccia ormai nell'acqua non riesci a respirare bene, eppure tenti un colpo di coda violento, ti divincoli cercando qualcosa da addentare, da tagliare per liberarti, per far cessare questo scricchiolio di tendini, questo dolore lacerante come un lampo che ti acceca la coscienza.
Ma non c'è niente nella tua vasca, nulla che tu possa affrontare, nulla che tu possa far sanguinare per tornare a nuotare verso il largo, solo acqua, l' acqua che ti sta entrando nella bocca e nel naso, che ti fa sputare e tossire e ti tira sempre più verso il fondo limaccioso, affogando e ruttando fino a che non cedi alla forza dei tentacoli che ti avviluppano le spalle e il collo e ti abbandoni ormai vinto e stanco a quella forza che ti inghiotte giù, e ancora speri che sia solo un sogno, che forse ti sei addormentato senza accorgertene mentre facevi il bagno.