domenica 22 settembre 2013

Preambolo alle istruzioni per caricare l'orologio

Pensa a questo: quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito, una catena di rose, una cella d’aria.
Non ti danno soltanto l’orologio, tanti, tanti auguri e speriamo che duri perché è di buona marca, svizzero con àncora di rubini; non ti regalano soltanto questo minuscolo scalpellino che ti legherai al polso e che andrà a spasso con te. Ti regalano – non lo sanno, il terribile è che non lo sanno -, ti regalano un altro frammento fragile e precario di te stesso, qualcosa che è tuo ma che non è il tuo corpo, che devi legare al tuo corpo con il suo cinghino simile a un braccetto disperatamente aggrappato al tuo polso.
Ti regalano la necessità di continuare a caricarlo tutti i giorni, l’obbligo di caricarlo se vuoi che continui ad essere un orologio; ti regalano l’ossessione di controllare l’ora esatta nelle vetrine dei gioiellieri, alla radio, al telefono.
Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che ti cada per terra e che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che è una marca migliore delle altre, ti regalano la tendenza a fare il confronto fra il tuo orologio e gli altri orologi.
Non ti regalano un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno dell’orologio.


Julio Cortazar, Storie di Cronopios e di Famas




«I cronopios e i famas, due geníe d’esseri che incarnano con movenze di balletto due opposte e complementari possibilità dell’essere, sono la creazione piú felice e assoluta di Cortázar. Dire che i cronopios sono l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l’ordine, la razionalità, l’efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l’autonomia morale del loro universo. Cronopios e famas possono essere definiti solo dall’insieme dei loro comportamenti. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtú a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l’un l’altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che, se si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; se sono dirigenti della radio fanno tradurre tutte le trasmissioni in rumeno; se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità.
Del resto, osservando bene, si vedrà che è una determinazione degna dei famas che i cronopios mettono nell’essere cronopios, e che nell’agire da famas i famas sono pervasi da una follia non meno stralunata di quella cronopiesca».


Italo Calvino



lunedì 16 settembre 2013

D.E.M.


Il mio nome é Anatoli, numero di matricola 7436.
Sono piuttosto giovane, tra i trentacinque e i quaranta direi, tutti passati qui dentro.
Per quello che mi é dato ricordare, ho sempre vissuto al Ministero.
Non ho altra memoria che quella dei suoi luoghi, vasti, silenziosi, inospitali. Ho percorso molti dei suoi infiniti corridoi, misurato quotidianamente passo dopo passo il grande cortile lastricato.
Alcune volte mi sono perduto.
Una mattina vagando tra le sale deserte, sono arrivato per caso fin nell'altissimo atrio d’ingresso, da dove fui prontamente ricondotto in camera.
In certi giorni ho sofferto di solitudine nonostante il palazzo brulicasse di persone, in altri, la sola coscienza di presenze altrui mi soffocava.
Siamo sempre stati in tanti in questo enorme edificio, ma non ho mai saputo quanti. So soltanto che nella enorme mensa dove mangiavamo, era impossibile contare i tavoli, e che raramente ho riconosciuto i miei commensali.
A tavola non ci erano assegnati posti fissi, e anche i turni dei pranzi cambiavano spesso. Oggi comincio a credere che tutto questo fosse studiato per impedire che sorgessero tra noi legami d’amicizia, o anche solo che ci scambiassimo semplici opinioni, e in effetti, in tanti anni passati qui dentro io non ricordo di aver mai conosciuto bene nessuno, nemmeno i miei vicini di stanza.
Rammento vagamente un viso, che probabilmente é la somma di tutti i visi che mi hanno attraversato il cammino.
La camera in cui vivevo era esattamente uguale a tutte le altre. Larga e spaziosa, aveva un soffitto molto alto e come unica apertura verso l'esterno, un finestrone fisso che correva lungo la parete ad un'altezza tale da non essere raggiungibile neanche con la sedia, cosa che del resto non ho mai tentato di fare. Ripensandoci, mi sembra strano che non abbia mai avuto il desiderio di guardare fuori, ma sono sempre stato soddisfatto solo di svolgere il mio lavoro e non ho mai chiesto altro.
La luce che entra da questa finestra ci consentiva di lavorare anche dopo il tramonto, senza dover mai accendere le luci.
La metà di una delle pareti laterali era occupata fino ad un’altezza di circa tre metri da un unico grande specchio, che duplicando fedelmente le apparenze, contribuiva a dare l'illusione di uno spazio inesistente. Completavano il resto dell'arredamento il letto, un armadio dove tenevo le mie tute azzurre, un tavolino di metallo fissato al pavimento ed una sedia. In un angolo, accanto alla porta di legno massiccio, vi era il lavandino con un'altro specchio cementato nel muro.
I tramezzi di separazione tra le varie camere hanno uno spessore notevole, che io ho sempre attribuito alla volontà dei costruttori di isolare acusticamente le stanze, per far sì che gli occupanti potessero svolgere in completo silenzio il loro lavoro. Ora che da due giorni non prendo compresse, mi torna in mente l'eresia che per un certo periodo fu mormorata a fior di labbra tra gli ospiti del Ministero. Sussurravano i miscredenti che quei muri così spessi nascondessero dei cavédi larghi abbastanza da lasciar passare un uomo, e che i grandi specchi fossero trasparenti da un lato, così che qualcuno, celato nelle intercapedini delle pareti, potesse sorvegliare di nascosto gli occupanti delle camere, di giorno o anche di notte, poiché in alto sulle porte delle stanze, esistono delle fioche luci rosse, che non hanno interruttore visibile.
Qualche volta, svegliandomi di notte avevo visto quella lampadina illuminata, ma non mi ero mai chiesto chi la accendesse e perché.
Tutte le mattine e le sere, al nostro rientro in camera, trovavamo sul bordo del lavabo un piccolo bicchiere di carta con dentro una compressa bianca, quella che ho cercato disperatamente in questi due giorni, e che non ho trovato. Si trattava, ci hanno sempre detto, di un blando stimolatore delle facoltà cerebrali, che ci consentiva maggiore attenzione nel lavoro alleviandoci allo stesso tempo la stanchezza.
Svolgevamo la nostra attività soprattutto in camera, anche se avevamo spazi comuni molto grandi da poter utilizzare: ampi saloni ben illuminati da grossi lucernari e una biblioteca immensa, che non so perché, nessuno frequentava volentieri. Diffidavamo degli ambienti troppo vasti, evitavamo dimensioni che alludessero all'esterno. Persino la passeggiata giornaliera nel grande cortile di pietra mi dava un senso di smarrimento.
Io lavoravo al D.E.M., il Dipartimento di Modifica degli Eventi ed il mio compito non era molto difficile, ma come quello di tutti, piuttosto complesso.
Ogni mattina gli incaricati di smistare il lavoro, conducevano per i corridoi grandi carrelli di metallo con le pratiche da elaborare e con i principali testi di consultazione, anche se chiunque desiderasse accedere alla biblioteca per approfondire un argomento o rendere più precisa la Modifica era libero di farlo.
Descriverò in cosa consistesse in pratica il lavoro.
A ciascuno di noi era affidato il controllo di libri, giornali, riviste, atlanti e quant'altro si potesse stampare e pubblicare nell'Unione.
Dovevamo leggere attentamente ogni pagina di questo materiale, rilevandone le incongruenze con le Modifiche apportate precedentemente ad altri testi e suggerire i cambiamenti da effettuare.
Ognuno sa quanto può essere pericolosa la Verità per chi non é preparato ad ascoltarla.
Tutti conosciamo gli effetti nefasti che essa ha avuto nel corso della Storia quando un popolo non ancora maturo si è trovato davanti a realtà che non era pronto ad affrontare serenamente: sommosse, devastazioni, rivoluzioni.
In una sola parola, ANARCHIA.
Al Ministero noi combattevamo contro tutto questo. Abbiamo lavorato per affermare non la Verità assoluta, che sappiamo inesistente o quanto meno inconoscibile, ma la migliore Verità per la gente.
Stabilito il principio (peraltro evidente) della relatività di ogni cosa, perché non utilizzare per il bene del Popolo la verità più adatta ad esso? Perché rischiare la stabilità sociale solo perché alcuni fatti che accadono, raccontati in un certo modo, possono turbare le coscienze di pochi uomini e spingerli a complottare contro lo Stato, quando con alcuni piccoli cambiamenti é possibile ricondurre la realtà nei suoi giusti confini, evitando che essa possa degenerare in chissà quali fantasie?
A questa missione era preposto il Ministero dell'Informazione, e a questo compito votati i suoi occupanti.
Il Dipartimento di Modifica degli Eventi, é soltanto una sezione del Ministero, perché in effetti questo sovrintende non solo a tutto quello che avviene, ma anche a ciò che é già avvenuto.
Esistono al suo interno diverse altre divisioni. Quella di Storia é la più importante, incaricata di cambiare sui libri e nei testi che vengono pubblicati quei fatti che non corrispondono alle necessità storiche.
Un'altra divisione molto attiva che lavora in stretto contatto con questa, é quella di Geografia, destinata a coordinare la realtà fisica dei luoghi ove si svolgono i fatti stessi, con gli accadimenti che meglio si adattano alle necessità. Ci sono ancora sezioni di Scienze, Politica, Economia e certamente altre che ignoro.
Piccole modifiche alle carte topografiche che da un anno all'altro nessuno nota, una data che cambia, un nome che muta in un altro simile, sono minuscoli interventi quasi invisibili che servono nel quadro di una corrispondenza di informazioni che non può permettersi nessuna discrepanza, pena la credibilità di tutto il nostro lavoro, anzi meglio, pena la credibilità di tutta la realtà che così faticosamente costruiamo.
E' fatale che tutto questo comporti qualche piccolo sacrificio. Che i cittadini non possano muoversi liberamente sul territorio dello Stato, ad esempio, é reso necessario dal fatto che per il momento le Modifiche degli Eventi vengono realizzate soltanto a livello di informazione e non ancora nella realtà. Sarebbe allora facile per chiunque si rechi in un posto, rendersi conto che tutto quello che ne conosceva per averne letto, é profondamente o apparentemente diverso dal reale.
Penso che al Dipartimento progettassero di intervenire, in futuro, direttamente sulla realtà esterna, con squadre di personale appositamente incaricato di trasformare l'aspetto dei luoghi, la segnaletica stradale, le didascalie nelle sale dei musei e tutto quello che fosse necessario alla congruenza storica.
Per il momento, ci limitavamo a sfogliare centinaia e centinaia di libri, cercando di far quadrare un rompicapo che si estende all'infinito nello spazio e nel tempo.
La difficoltà del nostro lavoro é insita nella sua stessa natura.
Difatti se la Realtà è unica, le Realtà Possibili al contrario sono infinite.
Scegliere tra queste le più utili, o anche solo le più credibili, che però non ne contraddicessero altre, immaginate precedentemente da operatori diversi, era il compito titanico che silenziosamente svolgevamo a riparo delle sicure mura del Ministero.
Solo oggi mi rendo conto di quanto fossimo separati dal mondo esterno.
Perché tutto questo é finito ormai per sempre.
E' successo due giorni fa. All'imbrunire nessuno é passato a ritirare il lavoro svolto durante la giornata e per la prima volta, al rientro dalla cena, non ho trovato sul lavabo il bicchiere di carta con dentro la compressa serale.
Con quali parole posso descrivere l'angoscia che mi prese per queste brusche interruzioni della normalità? Come posso spiegare il sentimento di paura lungo il quale mi sono rotolato per tutta la notte, terrorizzato alla sola idea di sporgere la testa nel corridoio per cercare aiuto?
Nell'oscurità tutto sembrava tranquillo come sempre. Il silenzio era un pozzo profondo in cui ascoltavo solo il mio respiro, ma io sapevo che nel buio qualcosa era in agguato, sentivo salire dalle camere accanto la stessa marea di muta paura sulla quale galleggiavo anch'io, e che si ritrasse solo alle prime luci liberatorie dell'alba, quando mi accorsi che il terrore indefinito della notte, lasciava spazio ad una paura più lucida, ad una preoccupazione più reale.
Capii improvvisamente che nessuno sarebbe venuto con la pillola del mattino, e non solo quel giorno.
Uscito nel corridoio mi diressi verso la sala mensa, dove avrei dovuto fare colazione. Il refettorio era gremito di persone, ma i tavoli erano desolatamente vuoti. Nessun suono dalle rumorose cucine, nessuno del personale addetto alla distribuzione dei pasti, eppure tutti i miei colleghi erano lì, seduti senza parlare, in attesa di mangiare, incapaci di comprendere che in poche ore tutto quello che erano, tutto quello che conoscevano non esisteva più e che mai più nessuno si sarebbe occupato di loro.
Uscii in fretta e ritornai nella mia stanza. Ora le pillole mi mancavano veramente molto. Andai a cercarle nella guardiola in fondo al corridoio, ma era vuota. La porta degli alloggi del personale era spalancata. Dentro non c'era più nessuno, tutto era in disordine, come se fossero andati via di corsa, inseguiti da qualcosa.
Rientrai nella mia camera.
Per tutto il giorno cercai di lavorare, ma le righe delle pagine mi si confondevano sotto gli occhi, e non riuscii a combinare niente. La paura mi divorava l'anima e la notte é stata anche peggiore. Per la prima volta nella mia vita, questa stanza mi é sembrata angusta, soffocante, e un pensiero nuovo mi ha attraversato all'improvviso la mente: il desiderio di sapere cosa ci fosse fuori di qui.
Durante la notte quest'idea é diventata un'ossessione, ma la paura di uscire nel buio era ancora troppo forte. Alla fine, questa mattina, sono riuscito a vincere l'angoscia e mi sono messo in cerca dell'uscita di questo labirinto.
Ho attraversato molti cortili uguali, o forse più volte lo stesso cortile. Ho percorso innumerevoli corridoi tutti simili dove una moltitudine di persone vagava come ipnotizzata. Nessuno di loro mi ha chiamato, nessuno mi ha rivolto uno sguardo. Li ho lasciati al loro lento risveglio e alla sorte che li attende.
Finalmente sono arrivato nell'atrio che ricordavo altissimo, e che invece non lo é, e mi sono avvicinato alla grande porta dai vetri opachi. Qui ho sostato, esitante, intimorito dai rumori che provenivano dall'altro lato.
Credevo di aver intuito che cosa fosse successo.
L'Immaginazione doveva aver preso il sopravvento sulla Realtà, e adesso che sapevo che cosa mi sarei trovato davanti, cercavo di prepararmi ad affrontarlo, ma come ci si prepara ad affrontare il caos, il nulla?
Ho esitato a lungo prima di azzardarmi a spingere l'anta della porta, ma alla fine mi sono deciso perché ho capito di non avere altra scelta.
La luce del sole mi ha colpito come uno schiaffo e per qualche secondo ho dovuto chiudere gli occhi, poi ho guardato la strada e ho visto. Ho visto gente, bambini, macchine, negozi, ho visto una moltitudine di colori che nemmeno immaginavo, ho sentito rumori spaventosi che però non provenivano da una sommossa, ma dalla vita di tutti i giorni, la vita che si svolge fuori delle mura di un edificio, e che da sempre mi é stata negata.
E finalmente ho capito.
Da quanto tempo le cose sono cambiate? Da quanto tempo siamo chiusi in questo museo a scrivere parole di cui nessuno si accorge? A proporre variazioni che non saranno mai prese in considerazione, ultimi schiavi di un regime che non esiste più forse da anni e che noi inconsapevolmente abbiamo continuato a servire con una perseveranza che é follia?
Abbiamo perpetuato per anni riti e consuetudini di una comunità che serviva solo a se stessa e che nessuno aveva mai pensato a smantellare.
Forse tutto é finito perché qualcuno spulciando tra i grovigli della burocrazia si é accorto dell'esistenza di questo posto assurdo, forse una mera ragione di bilancio ha soppresso una fonte di spesa così inutile o ancora più semplicemente, qualcuno che dirigeva questo deserto della memoria si é stancato della propria inutilità e banalmente ha riempito una valigia ed é andato via.
Non lo saprò mai.
Quello che so é che la gente si é scelta da tempo la verità nella quale gli piace vivere, ma che questa scelta io non l'ho mai fatta, e che quella realtà non é la mia.
Sono rientrato al Ministero e sono tornato nella mia stanza.
Non so se resterò in quest'utero di pietra dove ho già trascorso gran parte della mia esistenza e dove mi sento ancora protetto, o se troverò il coraggio di uscire a capire il mondo.
Intravedo una rivincita che la Verità si é presa nei miei confronti, interpolando nella mia vita un unico dato che l'ha sconvolta completamente: la Realtà.
In questo affollato deserto, condivido con i miei compagni un destino che accomuna molti uomini, quello di aver vissuto inconsapevolmente per le idee di qualcun altro, rinunciando alle proprie.