sabato 30 giugno 2012

Galleria


L'auto filava silenziosa sull'autostrada deserta e Rabboni con la coda dell'occhio controllò ancora una volta che i finestrini posteriori fossero aperti. Teneva tutti i vetri completamente abbassati, ciò nonostante sudava copiosamente e sentiva piccoli rivoli d'acqua scendergli giù per il collo a inzuppargli la camicia.
La macchina fendeva veloce l'aria immobile della calda notte estiva, illuminando l' asfalto ancora tiepido, e sembrava quasi alimentarsi delle lunghe strisce bianche che delimitavano le corsie.
Mario Rabboni guidava rilassato, quasi cullato dal sommesso pulsare del diesel, la nuca adagiata contro il poggiatesta e le mani che appena toccavano lo sterzo. Ogni tanto alzava gli occhi a guardare le stelle che punteggiavano la sua notte.
Quante volte negli anni trascorsi al volante, aveva visto quelle stesse luci fisse e immutate accompagnarlo lungo l'autostrada verso casa, a volte soddisfatto, ma altre, più spesso, deluso e amareggiato dai fiacchi risultati della sua giornata di commesso viaggiatore.
Non gli era mai piaciuto quel lavoro, ma lo aveva accettato inizialmente come l'unica possibilità di migliorare le sue precarie condizioni economiche e poter uscire dalla asfissiante atmosfera della famiglia paterna. Era servito a procurargli i mezzi per comperare una casa e sposare Laura; in seguito si era trovato invischiato in una ragnatela di amicizie e di rapporti dovuti a quella attività talmente fitta, che aveva rinunciato a spezzarla.
Con il tempo però aveva perso completamente interesse per quello che faceva, e soprattutto per quello che diceva. Nel parlare con i clienti raccontava sempre gli stessi falsi aneddoti, utilizzando un repertorio di personaggi e di conversazioni sperimentate in anni di lavoro che se da un lato producevano l'apprezzabile risultato di fargli concludere le sue vendite, dall'altro lo lasciavano sempre di più svuotato e insoddisfatto per la qualità delle sue giornate.
La notte si era fatta più fresca e mano a mano che i chilometri scorrevano il desiderio di trovarsi già a casa si faceva sempre più forte. La stanchezza accumulata durante la settimana gli pesava addosso e cominciava ad avvertire un vago intorpidimento che interpretò come sintomo di sonno. Per un attimo, lo colse addirittura un senso di vertigine, come una perdita di equilibrio che però durò solo una frazione di secondo.
Scosse la testa e concentrò la sua attenzione sulla galleria che stava percorrendo, un luminoso serpente giallo del quale non si intravedeva ancora l' uscita, valutando l' opportunità di fermarsi alla prima stazione di servizio che avesse incontrato per consumare un improbabile caffè così forte da fargli passare il peso che cominciava a gravargli sulle palpebre.
Respirò profondamente la spessa aria satura di umidità, dando un'occhiata distratta al tachimetro. Voleva assolutamente evitare di rovinare quella settimana tutto sommato abbastanza fortunata con una contravvenzione per eccesso di velocità.
Per questo teneva l'auto al disotto dei centoventi, andatura che gli avrebbe consentito anche una certa sicurezza nel caso di una frenata improvvisa visto che per il caldo afoso, gli riusciva impossibile sopportare l'opprimente fasciatura pettorale della cintura di sicurezza.
Si considerava un uomo prudente, Rabboni, ma sapeva che ogni statistica era contro di lui: aveva percorso troppi chilometri e aveva un numero di incidenti decisamente al di sotto della media.
Ecco perché adesso, anche se la strada era deserta e il desiderio di arrivare impellente, preferiva non spingere a fondo l'acceleratore. Si asciugò il sudore dal collo con il fazzoletto ormai fradicio e strusciò la schiena contro la spalliera del sedile, come un orso che si gratti contro il tronco di un albero, cercando di una posizione leggermente più comoda. Viaggiava da diverse ore ed aveva i muscoli delle gambe irrigiditi e contratti.
Ora però avvertiva una sottile lama di ansia che cominciava ad insinuarglisi fastidiosamente nel petto, ma non riusciva ancora a definire di che cosa si trattasse. Automaticamente i suoi occhi passarono in rivista la strumentazione del cruscotto, ma tutti gli indicatori erano al posto giusto, immersi nella loro verde fluorescenza. Di nuovo riportò lo sguardo con attenzione sulla strada illuminata dalla lunga teoria di luci color arancio che correva al centro della volta del tunnel, ma sentiva sempre l'indefinita sensazione di disagio che gli montava lentamente lungo la spina dorsale fino ad arrivare ad increspargli i capelli sulla nuca, quando si rese conto con stupore che era al chiuso da troppo tempo, e che non esistevano gallerie così lunghe su quel tragitto.
Istintivamente tolse il piede dall'acceleratore e considerò rapidamente la possibilità di aver sbagliato strada, ma scartò subito l'ipotesi ben sapendo che non c'erano raccordi o deviazioni da prendere per tornare a casa sua, né tantomeno poteva aver addirittura sbagliato direzione al casello di ingresso, in quanto ricordava perfettamente tutte le stazioni di servizio superate e anche i cartelli indicatori che ogni tanto aveva guardato per stabilire la sua distanza dal sospirato riposo.
L'auto cominciò a rallentare sensibilmente mentre Rabboni cercava di intravedere il successivo segnale stradale che gli rivelasse che razza di idiota era stato e su quale maledetta autostrada stesse viaggiando, ma le pareti del tunnel erano nudo cemento annerito dalla fuliggine dei gas di scarico.
Con un gesto di stizza, scalò di una marcia e pigiò forte sull'acceleratore, deciso ad uscire il più rapidamente possibile all'aperto dove i cartelli con le indicazioni si ripetevano immancabilmente ogni chilometro, e intanto cercò di ricordare l'ultimo segnale luminoso che, ne era certo, aveva visto poco prima di imboccare la galleria. Ci aveva fatto caso più che altro per l'indicazione della temperatura che quella notte gli sembrava davvero eccessiva.
18/07/86 TRAFFICO REGOLARE, recitava il cartello, e più sotto ORE 22.30 TEMP. 29°C, VIAGGIATE CON PRUDENZA nessuna indicazione però riguardo alla distanza dal prossimo casello o sul numero della autostrada.
Mario Rabboni maledisse ad alta voce il suo lavoro, la stanchezza e l'abitudine a guidare come un automa che non ti fa più vedere quello che hai intorno, ma solo l' asfalto e la strumentazione davanti a te. Infilò rabbiosamente la quinta e spinse a centosessanta giustificandosi di quella piccola imprudenza con il fatto che la galleria era completamente deserta.
A quella constatazione di nuovo sentì un solletico alla nuca, mentre il cuore con un sussulto gli suggerì un nuovo motivo d’inquietudine in quanto era sicuro che da quando era entrato nel ventre di quello smisurato cetaceo, non aveva più incontrato alcuna vettura, e una rapida occhiata nel retrovisore gli confermò che nessun’auto lo seguiva.
I catarifrangenti dei guard-rail restituivano la luce dei fari con gialli ammiccamenti, e anche oltre, la distanza era scandita dai piccolissimi occhi, senza che nulla interrompesse quella sequela di minuscoli lampi.
Il tunnel sembrava in leggera discesa ed era perfettamente rettilineo ma Rabboni sentiva una specie di resistenza al suo passaggio, come se l'auto stesse affrontando una lieve salita o come se le gomme, trattenute da un asfalto vischioso si sforzassero di rotolare sulla nera lingua di quella bocca spalancata. Allora, mentre la macchina correva ai limiti delle sue capacità senza che gli riuscisse ad intravedere la fine della galleria, per la prima volta Rabboni venne sfiorato dal pensiero che forse era prigioniero della montagna e che quel tunnel non avesse fine.
Fu solo per un attimo, subito sorrise tra sé e sé di quell'immagine assurda allontanandola, ma un residuo d’impressione gli rimase in fondo alla mente, come gli era capitato una volta all'aeroporto, quando aveva atteso oltre ogni ragionevole ritardo il volo con cui Laura rientrava da un viaggio in Inghilterra.
Era successo di notte, e nonostante le rassicurazioni del personale della compagnia aerea che sostenevano che il ritardo fosse dovuto ad un banale guasto meccanico quando l'aeromobile (avevano detto proprio così, aeromobile) era ancora a terra a Londra, a lui erano sembrate scuse accampate per nascondere l'evidenza di una disgrazia ormai già avvenuta, tanto che l'arrivo di sua moglie gli aveva procurato oltre ad una immensa gioia, anche una certa meraviglia, e la strana sensazione di essere stato ingannato non lo lasciò per diversi giorni.
Immerso nel ricordo di quell'episodio aveva per un attimo trascurato la strada, e fu solo per quella capacità acquisita da tutti i guidatori con chilometri di esperienza, che i suoi sensi registrarono una piccola variazione nell'omogenea parete della galleria.
Frenò d'istinto, ma l'automobile così lanciata proseguì ancora velocemente facendo stridere i pneumatici per parecchie decine di metri, fino a che si fermò del tutto costringendolo a fare retromarcia.
Prima di scendere dall'auto Rabboni si chiese se dovesse azionare i lampeggiatori di emergenza e ancora guardò nel retrovisore la strada deserta dietro di sé. Poi rassegnato ai gesti di una inutile prudenza schiacciò il pulsante, tirò il freno a mano e scese dalla vettura senza spegnere il motore. Sulla parete di fronte si apriva un largo passaggio che comunicava con l'altro senso di marcia del tunnel.
Attraversò la carreggiata e si trovò davanti al pozzo buio, nel quale la luce delle lampade non riusciva ad entrare. Esitò un istante, trattenuto più che dal tanfo di umido e di stantio che esalava dal passaggio, dalla istintiva repulsione che gli ispirava la mancanza di luce e dall'idea che un ratto o qualche altro animale disgustoso potesse abitare le pareti del condotto.
Decise per un'andatura dignitosamente veloce, che gli consentisse di attraversare quel piccolo tunnel sotto il tunnel, senza che il suo amor proprio ne soffrisse troppo e senza che qualche ragno potesse finirgli tra i capelli.
Come era naturale, l'altro tratto della galleria si presentava del tutto identico al primo, anche questo totalmente privo di qualsiasi indicazione e completamente silenzioso. " Eppure - pensò Rabboni - non é poi molto tardi, saranno al massimo le undici! " e si guardò il polso nudo. Ricordò allora che un paio di ore prima si era sfilato l'orologio che il sudore gli appiccicava continuamente ai peli del braccio e lo aveva poggiato sul cruscotto.
Rimase per qualche minuto immobile con l'orecchio teso al rumore di un eventuale clacson e lo sguardo alla sua auto, sperando che qualcuno la sorpassasse, ma l'unico insulto alla perfezione del silenzio era causata dal suo motore in funzione.
Cominciava a rendersi conto dell'assurdità dell'intera faccenda, ma la paura provata poco prima sembrava adesso controllata dalla curiosità e dalla voglia di comprendere che cosa gli stesse capitando. Ritornò alla macchina riattraversando velocemente lo spazio buio e si rimise al volante incerto sul da farsi.
Il borbottio del diesel gli impediva di pensare con lucidità.
Spense il motore.
Adesso il silenzio era completo ed opprimente "Ma, - ragionò Rabboni - alla fine... qui sotto non può accadermi nulla di pericoloso. Ed in verità a parte il caldo umido che però regnava anche all'esterno, la sua situazione non gli sembrava particolarmente allarmante, ma piuttosto incomprensibile, anzi a rigor di logica essa era semplicemente impossibile.
Inspirò a fondo l'aria salmastra del tunnel e sentì un lieve frullo d'ali alla bocca dello stomaco.
La paura che lentamente ricominciava a farsi largo in lui era la stessa che prende chiunque di fronte all'inesplicabile, quando i pensieri sembrano palline da ping-pong che vanno e vengono continuamente da una possibilità all'altra, senza riuscire a fermarsi su nessuna spiegazione convincente. L'unica cosa da fare per vincere quell'ansia era uscire da lì dentro.
Girò la chiave dell'accensione per rimettere in moto, ma non accadde niente, tranne che la verdognola luminosità del quadro diminuì sensibilmente mentre il motorino d’avviamento faceva un clic per niente rassicurante.
Rabboni chiuse gli occhi e appoggiò sconfortato il capo sul poggiatesta. Aveva troppa esperienza di batterie e di quell'auto per non sapere che non c'era nulla da fare per tentare di ripartire, ma nonostante questo, imprecando tra i denti si accinse a tutti i tentativi di rito per cercare di riavviare il motore.
Pregò, scongiurò, blandì il dio della meccanica di aiutarlo ben sapendo che quando questa divinità decide di ordire la Congiura degli Oggetti, non c'è nulla che possa opporvisi e che ogni goffo tentativo di un poveraccio di spezzare la catena di eventi sfavorevoli si rivolge sempre a suo danno: forbici affilatissime non tagliano, oggetti minuscoli cadono dalle mani e svaniscono nel nulla, scale pieghevoli non si piegano se non a prezzo delle dita, la chiave inglese é sempre troppo larga e il dado così arrugginito da sembrare saldato al perno.
Anche quella volta, la regola fu rispettata appieno e a Rabboni non restò altro che lo spareggio tra la lunga attesa di un automobilista che potesse soccorrerlo o una ancora più lunga passeggiata fino all'esterno del tunnel nella speranza di trovare un Motel o almeno una stazione di servizio per cercare di recuperare la macchina.
I tentativi di risolvere il problema contingente avevano distolto i suoi pensieri dalle fantasie sulla lunghezza della galleria, ma ora che si era risolto di proseguire a piedi, l'inquietudine mai completamente sopita, cominciò a farsi risentire come un volo di farfalle impazzite dentro la pancia.
Valutò per qualche secondo la convenienza di tornare indietro piuttosto che andare avanti, ma poi ragionò che per quanto potesse essere lungo lo stramaledetto tunnel, sicuramente la strada che rimaneva da fare per uscirne era inferiore a quella già fatta.
Aprì il bagagliaio e decise di portare con sé soltanto la valigetta da lavoro e la torcia elettrica, per rendersi più visibile alle auto quando sarebbe stato fuori, nella notte. Trovò il triangolo di emergenza e andò a sistemarlo ad una ventina di passi dalla macchina, nonostante questa fosse perfettamente visibile nella vivida luce gialla della galleria, e chiuso a chiave lo sportello si avviò di buon passo, cercando di ignorare il pensiero che si agitava sul fondo del suo animo riguardo all’improbabilità che tutto quello che gli stava succedendo stesse accadendo per davvero.
Dopo quello che a lui sembrò circa un chilometro, la galleria piegava dolcemente verso destra nascondendogli lentamente il percorso appena fatto e dopo qualche minuto Rabboni vide distintamente una luce verde apparire sulla parete della carreggiata di sorpasso.
Vi si diresse risolutamente e mano a mano che si avvicinava, si accorse che l'insegna luminosa rappresentava un omino che apre una porta. Accelerò il passo finché arrivò ad un andito che si apriva sul fianco del tunnel, chiuso sul fondo da due battenti di acciaio inossidabile.
La porta non aveva maniglia, e Rabboni pensò che fosse incernierata a molla, infatti, sotto la sua spinta si aprì dolcemente. Dava su un piccolo locale di servizio con il pavimento di cemento, illuminato da due fioche lampade laterali, e che aveva al centro una scala a chiocciola. Si appoggiò con prudenza al corrimano per non sporcarsi di ruggine e di polvere.
Alzò gli occhi nel tentativo di scorgere dove conducesse, ma la vista era impedita dai gradini. Con il cuore aperto alla speranza, cominciò a salire su per gli scalini badando a non battere la testa e cercando di poggiare bene i piedi, timoroso di una caduta che avrebbe potuto fratturargli una gamba, e che in quel frangente avrebbe significato forse anche la morte, data l'impossibilità di essere soccorso.
La scala smontava su di un angusto pianerottolo ad un lato del quale vi era una porta uguale alla precedente, tranne per il fatto di essere ad un unico battente. Ansante, ma sollevato Rabboni spinse l'anta come aveva fatto con quella più in basso, ma questa non si mosse di un solo millimetro. Furioso, lasciò cadere in terra la sua borsa e con tutte e due le braccia tese in avanti appoggiò violentemente le palme delle mani sull'acciaio freddo, dando un deciso colpo di reni, ma la porta non diede segno di cedimento alcuno, neanche quando ormai quasi piangente cominciò a prenderla a spallate.
Quando riemerse nella liquida luce gialla della galleria, Rabboni aveva rimediato una spalla dolorante, ma in compenso il suo morale era a pezzi e la speranza di uscire da quell'incubo si affievoliva sempre di più. Riprese a camminare, trascinandosi dietro l'immancabile borsa che in tanti anni di lavoro era diventata ormai una sua appendice. A volte quando usciva la domenica, trasaliva al pensiero di averla dimenticata da qualche parte, il cuore gli dava un tuffo e per un attimo si sentiva nudo.
Come si sentiva nudo adesso, accorgendosi che non aveva riallacciato l'orologio sul polso, lasciandolo in macchina.
Aveva perso il senso del tempo, gli sembrava che fossero passate delle ore da quando si era incamminato verso un’impossibile uscita e sentiva una stanchezza nelle gambe che non si giustificava con il breve cammino percorso. Avvertiva il sottile orrore di un luogo pensato e costruito per condurre e che invece non portava da nessuna parte e capì che perdersi in un posto ben definito e circoscritto non è meno spaventoso che smarrirsi nella vastità di un oceano. Caparbiamente si costrinse a proseguire lungo il serpente di luce che, ora n’era certo, non portava all'esterno, ma s’inoltrava sempre di più nelle viscere della montagna che lo sovrastava.
Il pensiero dei milioni di metri cubi di roccia che gli gravavano sopra la testa, il caldo soffocante che lo costringeva ad inalare un'aria bagnata e pesante gli rendevano difficile ogni movimento, e quando Rabbonii scorse l'inconfondibile insegna di un telefono pubblico la sua andatura fino ad allora soltanto goffa, divenne addirittura pietosa nel frenetico tentativo di corsa che lo mandò a rovinare sull'asfalto più volte.
Come dio volle riuscì a raggiungere la cavità che conteneva il telefono fissato alla parete.
Con un ruggito urlò che questa volta non l'avrebbero fregato, aveva un mucchio di monetine in tasca e persino una scheda magnetica quasi nuova.
Tutta roba utilissima se l'apparecchio avesse funzionato, ma a qualsiasi tentativo questo risultò stolidamente muto. Strappò via filo e cornetta, e li ridusse minuziosamente in pezzettini calpestandoli. Poi, improvvisamente scoppiò a piangere.
Intuì che non era la stanchezza che stava per sopraffarlo, ma lo scoraggiamento.
La rinuncia però non gli sembrò insopportabile, in qualche modo lo sollevava, e il desiderio di abbandonarsi ad un riposo che gli calmasse i battiti del cuore fino a fermarglieli fu più forte della voglia di tornare a casa.
Fu allora che Rabboni capì che non esisteva alcun’uscita, che nessun’automobile sarebbe passata per condurlo via di lì, e che non c'era più nessuno all'esterno che lo aspettasse, nessun luogo dove andare, nessun posto dove stare al di fuori della gialla, luminosa, infinita galleria. Non sarebbe rinato alla luce, non avrebbe affrontato di nuovo la fatica del giorno e forse, al suo cuore in tumulto non dispiacque potersi riposare nel tiepido ventre della terra.
Si lasciò scivolare sull'asfalto e chiuse gli occhi. 
                

Mario Rabboni venne soccorso da un camionista di passaggio, che si era fermato vedendo la macchina azzurra addossata al guard rail, immediatamente dopo l'ingresso del tunnel.
Era seduto al volante dell'auto con il motore ancora acceso, il capo reclinato sul poggiatesta.
Quando lo trovarono, l'orologio sul suo polso segnava le 22.45 e il medico dell'ambulanza che lo portò via disse che l'infarto lo aveva fulminato non più di dieci minuti prima.
Ma il tempo si sa, é solo un'invenzione dell'uomo.



lunedì 25 giugno 2012

Management


La R.P.L. CORPORATION LTD è una grande multinazionale. Ha assunto i suoi Top Manager col criterio della “catastrofe superata”, un sistema di selezione in largo uso negli U.S.A.
Un esempio ottimo di questo criterio è stato offerto dalla NASA in occasione delle missioni lunari.
Gli astronauti furono scelti in base alle situazioni critiche che avevano vissuto nel corso della loro carriera. Neil Armstrong fu abbattuto due volte nella guerra di Corea quando era pilota militare.
Paracadutato in zona nemica, riuscì sempre a cavarsela da solo. Questo garantiva abilità, nervi saldi, capacità di reazione. Anche per questo fu selezionato per diventare il primo uomo sulla Luna.
La R.P.L. CORPORATION LTD applica lo stesso principio nella scelta degli uomini di punta. Assume solo manager che abbiano attraversato fallimenti, catastrofi societarie, periodi di vendite disastrosi.
I cacciatori di teste della R.P.L. seguono con attenzione le grandi aziende concorrenti.
Quando una di loro comincia a perdere colpi i cacciatori di teste si informano sui suoi dirigenti, e più li sanno affondati nei debiti, nei guai giudiziari, negli insuccessi, più li corteggiano. “Si sono ficcati in un mare di merda” e “Non lasciamoceli scappare” sono le frasi che girano ai piani alti della R.P.L. CORPORATION LTD in queste circostanze.
Quando la concorrente va definitivamente in rovina, la R.P.L. rompe gli indugi e assume in blocco tutti i protagonisti del tracollo.



 

domenica 24 giugno 2012

La Manticora



Nei bestiari medievali la Manticora è descritta come una bestia che vive in India, con il volto d'uomo, del colore del sangue (rosso cinabro). Il corpo è del leone, la coda dello scorpione. Secondo Plinio, che riferisce le parole di Ctesia, medico greco di Artaserse Mnemone, essa ha tre ordini di denti connessi come quelli d'un pettine e una voce flautata con la quale attira i viaggiatori. La coda (o il corpo) è irto di aculei che vengono scagliati con forza all'intorno.



File:Mmantich.jpg





Sembra che il suo nome derivi dal  persiano mard khora che significa "mangiatrice d'uomini"


Flaubert nelle ultime pagine della "Tentazione di Sant' Antonio" la descrive così: 
" I marezzi del mio pelame scarlatto si confondono col riverbero delle grandi sabbie. Soffio dalle narici lo spavento delle solitudini. Sputo la peste. Mangio gli eserciti, quando s'avventurano nel deserto. Ho le unghie ritorte a succhiello, i denti tagliati a sega; e la mia coda roteante è irta di dardi che lancio a destra, a sinistra, in avanti, in dietro. Guarda! Guarda! (la manticora lancia le spine della coda, che si irradiano come frecce in tutte le direzioni. Gocce di sangue piovono schioccando sul fogliame.)"


Emerson Lake & Palmer hanno inciso per l'etichetta Manticore, come anche la PFM e il Banco del Mutuo Soccorso, e tutto questo sproloquio di oggi su quest'animale immaginario, mi è saltato fuori perchè cercavo il brano seguente, tratto da un concerto del 1971 (credo) The Sage, uno dei pezzi dell' Lp "Pictures at an exibithion" ispirato alla omonima opera di Musorgskij.


 
Forse si capisce che amo il Progressive.......

domenica 10 giugno 2012

Ray Bradbury

Pubblico un video che mi è piaciuto molto, si ispira ad una poesia di Sara Teasdale che lessi per la prima volta in uno dei brani che compongono "Cronache marziane".
Bradbury intitolò il brano come la poesia: Dolce cadrà la pioggia.
I coloni di Marte sono tutti ripartiti per la Terra dove si sta svolgendo un conflitto termonucleare globale. Sul pianeta non è rimasto nessuno, gli automatismi di una casa continuano a funzionare senza gli abitanti, inutilmente, stolidamente....
Il video l'ho trovato su Youtube e mi è sembrato che l'autore abbia colto perfettamente l'atmosfera di un day after dell' umanità.



La poesia l'avevo già pubblicata altrove in questo blog, quando qualcuno a cui tenevo se n'è andato per sempre.


sabato 9 giugno 2012

Ray Bradbury

L'estate del razzo

Fino ad un istante prima era ancora l'inverno dell' Ohio, le porte chiuse, i vetri alle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia d'ogni tetto, bimbi che sciavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate.
E a un tratto una lunga onda tiepida era passata sulla cittadina.
Una marea di aria calda, quasi che qualcuno avesse lasciato aperta la porta di una panetteria.
Il calore pulsava tra le casette, i cespugli, i ragazzi. Le stalattiti di ghiaccio si distaccavano rovinose e, in frantumi, si scioglievano rapidamente. le porte si spalancavano. I vetri delle finestre si alzavano impetuosi. 
I ragazzi buttavano via gli indumenti di lana. Le massaie si spogliavano delle loro pelli d'orso. La neve si scioglieva a mostrare la verde, antica prateria dell'ultima estate. 
L'estate del razzo.
Le parole passavano di bocca in bocca nele case aperte, bene aerate. 
L'estate del razzo.
La calda aria del deserto che mutava i ghirigori di ghiaccio sulle finestre, cancellava l'opera d'arte. Sci e slitte improvvisamente inutili. La neve, nel cadere dal cielo freddo sul villaggio, si trasformava in una pioggia torrida ancora prima di toccare il suolo. 
L' estate del razzo.
La gente si sporgeva di sotto le verande gocciolanti a spiare il cielo che si arrossava. Il razzo stava sul campo di lancio, eruttando rosee nubi di fuoco, esalando scoppi d'aria rovente. Il razzo si levava nella fredda mattina invernale e creava l'estate ad ogni respiro dei suoi possenti ugelli di scarico.
Il razzo faceva i climi, le stagioni, e l'estate fu per un breve istante sopra la terra....

Ray Bradbury  "Cronache marziane"



In settimana è morto Ray Bradbury, uno dei miei autori preferiti.

Ho letto molta fantascienza e posso dire con certezza che non era un autore di questo genere, ma un poeta del fantastico. 

La fantascienza è solo un'anticipazione della realtà e come tale ha l'obbligo di essere credibile, il fantastico, come la vita, no.

Chiunque abbia letto "Cronache marziane" o " Il popolo dell' autunno" molto più che " Fahrenheit 451" sa di che cosa sto parlando.

D'altra parte, esagerando si potrebbe affermare che tutta la letteratura è letteratura fantastica, salvo che qualcuno non voglia credere che Ulisse, Don Quichote, padre Brown o il commissario Montalbano siano personaggi reali.

Una volta Bradbury dichiarò che sarebbe stato felice se qualche ragazzo alla sua morte avesse scritto a matita sulla sua lapide "Egli raccontava favole".
Bene, io credo che lo si possa tranquillamente accontentare......