Il brano di Borges
che ho riportato qualche giorno fa, "La casa di Asterione"
è naturalmente ambientato nel Labirinto, una delle ossessioni
dello scrittore sudamericano. Come riporta in un altro scritto:
"l'idea di una cosa fatta perché la gente si perda, è forse
più singolare di quella di un uomo con la testa di toro; ma le due
reciprocamente si aiutano, e l'immagine del labirinto
conviene all'immagine del Minotauro"
L'immagine del labirinto, rimanda probabilmente a quella del palazzo
di Cnosso che per la sua immensità la doveva suggerire.
Sappiamo che l'edificio fu costruito da Dedalo insiema a suo figlio
Icaro, per volere di Minosse re di Creta, al fine di potervi
nascondere il Minotauro, figlio mostruoso di nato da un'accoppiamento
bestiale.
Sua moglie Pasifae infatti, per una maledizione di Poseidone si era
innamorata di un toro, al punto da farsi costruire da Dedalo una
giumenta di legno per poter dare sfogo alla sua passione.
Il Minotauro mangiava carne umana e ogni anno sette giovani e sette
fanciulle venivano spedite nel palazzo per fare da pranzo al mostro.
Nel XII canto dell'Inferno, Dante lo incontra insieme a Virgilio, e
rifacendosi ad un brano delle Metamorfosi di Ovidio, lo descrive col
corpo di toro e la testa d'uomo, così come lo dipinge in questa
illustrazione Cima da Conegliano.
Mentre invece viene generalmente ritratto al contrario:
Il labirinto ci affascina perchè è una delle metafore
dell'esistenza, con la sua incomprensibilità, la difficoltà di
attraversarlo trovando la strada per l' uscita, e naturalmente si
presta ad una infinita simbologia esoterica.
Non a caso è stato simbolo per alchimisti e filosofi, viene
rappresentato sui pavimenti delle cattedrali, non a caso il solo modo
per uscirne per Teseo è seguire il filo di Arianna, che rappresenta
la luce nelle tenebre, la strada da non perdere nella ricerca.
Io però vorrei proporre un'altro labirinto, più semplice ma non
meno spietato, immaginato anche questo da Borges nell' "Aleph"
«Narrano gli uomini di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi
antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi
architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto
tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a
entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno
scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni
proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua
corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della
semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove
vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il
soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono
alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch'egli in Arabia aveva un
labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel'avrebbe fatto
conoscere un giorno.
Poi fece ritorno in
Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di
Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli,
sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su
un veloce cammello e lo portò nel deserto.
Andarono tre giorni, e gli disse: "Oh, re del tempo e
sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un
labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l'Onnipotente
ha voluto ch'io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire,
né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri
che ti vietano il passo." Poi gli sciolse i legami e lo
abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete.
La gloria sia con Colui che non muore.»
Il Re e i Due Labirinti,
da L'Aleph (1944), J. L. Borges.
Immagine
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