giovedì 23 febbraio 2012

Il Grande Gioco


Adesso era completamente solo.
Si appoggiò esausto al muro salmastro restando in silenziosa attesa. Il corridoio era deserto, rischiarato a tratti dalla luce tremolante di alcune torce fumose infilate negli anelli di ferro alle pareti.
Respirava piano, giacché qualunque rumore avesse prodotto, si sarebbe ripetuto innumerevoli volte rotolando lungo le pareti del labirinto, dando un sicuro indizio della sua presenza. Non si illudeva che non lo stessero cercando, ma almeno avrebbe negato loro il vantaggio di coglierlo di sorpresa.
La ferita alla spalla gli doleva di una pulsazione ritmica, sorda, e le gambe gli tremavano per la stanchezza, ma sentiva che ormai l'uscita doveva essere vicina.
Era l'unico rimasto dell'esigua spedizione di quell'anno. I suoi quattro compagni giacevano in qualche corridoio di quel labirinto sotterraneo dove avevano affrontato con atterrito coraggio le pattuglie degli Hongar.
Inutile pensare al sangue, agli orrori di quella o quelle notti, (al chiuso aveva perso il senso del tempo), adesso l'unica speranza era quella di riuscire ad arrivare al salone con la scala di pietra prima che vi giungesse l'orda nemica.
Festnir, questo il suo nome, era stato allevato sin da bambino per partecipare al Gioco. Tutta la sua educazione era stata incentrata sull'uso delle armi e sulla lotta fisica. Aveva imparato a maneggiare lo spadone a due mani come se si trattasse di una forchetta, sapeva tirare con arco lungo e balestra, usava lancia, bastone e pugnale come se fossero il naturale prolungamento dei suoi arti, e tutto questo per quell'unico combattimento rituale: il Grande Gioco.
Era il Gioco che garantiva la pace secolare che durava nella sua terra.
Ogni dieci anni, dal tempo del Caos, un manipolo di uomini selezionati per quel compito contendeva ad un gruppo di Hongar il possesso del Talismano di Olun nel labirinto sotterraneo che si estendeva sotto la Rocca di Korash.
Le due razze si erano combattute a lungo nei secoli precedenti con sorti alterne, fino a che il Consesso dei Saggi stabilì che per mantenere la pace si sarebbe tenuto ogni dieci anni il Grande Gioco. Un gruppo di cinque uomini avrebbe affrontato lo scontro con un identico numero di Hongar e i vincitori avrebbero amministrato la giustizia nelle Terre del Confine, fino all'incontro successivo. Per equiparare le forze, alla nazione perdente era consentito di aggiungere un uomo in più ad ogni combattimento. Quella volta Festnir e i suoi compagni si erano battuti con un gruppo di venti Hongar, perché da più di un secolo il Talismano era nel Tempio della Luce Cangiante, nella città umana di Hamblin.
Gli Hongar erano una razza semi-umanoide prolifica e crudele, di aspetto selvaggio e tozza corporatura, con muscoli poderosi e curiose orecchie a punta, la cui caratteristica principale era la violenza del comportamento. Adoravano un dio cieco e idiota, il cui sacerdote era un individuo al quale venivano mozzate braccia, gambe e lingua per simboleggiare l'incomprensibilità del divino e l’immobilità dell'universo. Ogni anno veniva portato in processione completamente avvolto in bende imputridite e se le stagioni precedenti non erano state favorevoli ai raccolti, veniva lapidato sulla piazza della capitale e sostituito da un altro Hongar della stessa casta.
Era con questa razza che gli umani dovevano condividere le Terre del Confine, ed era questa sorta di bestie che, acquattata nell'ombra di qualche anfratto del sotterraneo, aspettava Festnir per sottrargli il Talismano.
L'uomo controllò per l'ennesima volta che il sacchetto di cuoio contenente la gemma fosse ancora attaccato alla sua cintura e lentamente avanzò nel corridoio saturo di umidità. Respirava a fatica e il dolore alla spalla si faceva sempre più acuto, ma ora gli sembrava di sentire un alito di aria fresca sul volto, segno che il salone di ingresso non poteva essere lontano. La mappa che aveva tracciato insieme ai suoi compagni addentrandosi nei corridoi era andata persa in uno degli scontri sostenuti con gli avversari ed egli ora seguiva solo il suo istinto per raggiungere l'esterno. Si stava chiedendo se fuori avrebbe trovato il sole o il buio, quando gli giunse il rumore quasi impercettibile del metallo che striscia conto la pietra. Si bloccò all'istante trattenendo il fiato.
Il suono era cessato, ma proveniva, ne era certo, da dietro l'angolo successivo. Infatti, dopo qualche istante, un ombra avanzò lentamente sul pavimento all'incrocio dei due corridoi e una testa dalle orecchie a punta si affacciò nella luce delle fiaccole. Festnir non diede all'Hongar il tempo di stupirsi, balzò con la spada alzata e con tutte le sue forze calò un fendente che gli spiccò la testa dal collo.
L'essere cadde senza un gemito ad inzuppare di sangue la sabbia e subito Festnir fu al centro dell'incrocio con la spada alta pronto a colpire, ma il guerriero era solo, forse perso anche lui in quell'intrico di roccia.
Di nuovo, con infinita cautela, l'uomo si mosse verso la direzione da cui sembrava provenire il soffio di aria fresca. Camminava con passo leggero, l'orecchio teso a cogliere ogni minimo rumore, i muscoli contratti pronti a scattare. Dopo l'ultimo sforzo la spalla sanguinava copiosamente e comprese che stava lasciando una traccia nitida sui lastroni di pietra del pavimento, ma era troppo stanco per preoccuparsene, sognava già di essere fuori del labirinto, di poter finalmente lasciare il Collegio d' Armi, di essere lavato e massaggiato da una di quelle ragazze che aveva visto tante volte passeggiare oltre il muro di cinta, senza l'incubo dello scontro che lo aveva attanagliato per tante notti. Che altri giocatori provvedessero all'impresa, lui aveva già svolto il suo compito.
Ormai sentiva l'aria pulita asciugargli il sudore che gli attaccava addosso la tunica. Percepì un vago odore di fiori notturni e comprese che fuori era buio, sarebbe uscito nella notte, riemerso da quell'umido sepolcro e tornato a nuova vita. Affrettò il passo.
Gli Hongar rimasti lo attendevano nell'ultima stanza, quella con lo scalone di pietra.
Gli furono addosso tutti insieme mulinando le spade e lanciando urla bestiali.
Festnir schivò i primi colpi e abbatté un avversario, ma la punta di una lancia gli trafisse il fianco e cadde su un ginocchio. Tentò vanamente di rimettersi in piedi, ma nuovi colpi lo raggiunsero alla schiena. L'ultimo pensiero che gli attraversò la mente fu che per sua colpa il Gioco era perduto, e che il popolo del Caos avrebbe regnato sulle Terre del Confine.


"Ho vinto di nuovo! " gridò Massimo.
Mario lo guardò con indifferenza " Per forza! -ribatté- tu ci giochi tutti i giorni con questo coso, ma alla prossima partita prendo io i mostri e tu gli eroi, poi voglio vedere come va a finire".
Si avvicinò allo schermo e spense il computer.

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