L'auto filava silenziosa
sull'autostrada deserta e Rabboni con la coda dell'occhio controllò
ancora una volta che i finestrini posteriori fossero aperti. Teneva
tutti i vetri completamente abbassati, ciò nonostante sudava
copiosamente e sentiva piccoli rivoli d'acqua scendergli giù per il
collo a inzuppargli la camicia.
La macchina fendeva veloce l'aria
immobile della calda notte estiva, illuminando l' asfalto ancora
tiepido, e sembrava quasi alimentarsi delle lunghe strisce bianche
che delimitavano le corsie.
Mario Rabboni guidava rilassato,
quasi cullato dal sommesso pulsare del diesel, la nuca adagiata
contro il poggiatesta e le mani che appena toccavano lo sterzo. Ogni
tanto alzava gli occhi a guardare le stelle che punteggiavano la sua
notte.
Quante volte negli anni trascorsi al
volante, aveva visto quelle stesse luci fisse e immutate
accompagnarlo lungo l'autostrada verso casa, a volte soddisfatto, ma
altre, più spesso, deluso e amareggiato dai fiacchi risultati della
sua giornata di commesso viaggiatore.
Non gli era mai piaciuto quel
lavoro, ma lo aveva accettato inizialmente come l'unica possibilità
di migliorare le sue precarie condizioni economiche e poter uscire
dalla asfissiante atmosfera della famiglia paterna. Era servito a
procurargli i mezzi per comperare una casa e sposare Laura; in
seguito si era trovato invischiato in una ragnatela di amicizie e di
rapporti dovuti a quella attività talmente fitta, che aveva
rinunciato a spezzarla.
Con il tempo però aveva perso
completamente interesse per quello che faceva, e soprattutto per
quello che diceva. Nel parlare con i clienti raccontava sempre gli
stessi falsi aneddoti, utilizzando un repertorio di personaggi e di
conversazioni sperimentate in anni di lavoro che se da un lato
producevano l'apprezzabile risultato di fargli concludere le sue
vendite, dall'altro lo lasciavano sempre di più svuotato e
insoddisfatto per la qualità delle sue giornate.
La notte si era fatta più fresca e
mano a mano che i chilometri scorrevano il desiderio di trovarsi già
a casa si faceva sempre più forte. La stanchezza accumulata durante
la settimana gli pesava addosso e cominciava ad avvertire un vago
intorpidimento che interpretò come sintomo di sonno. Per un attimo,
lo colse addirittura un senso di vertigine, come una perdita di
equilibrio che però durò solo una frazione di secondo.
Scosse la testa e concentrò la sua
attenzione sulla galleria che stava percorrendo, un luminoso serpente
giallo del quale non si intravedeva ancora l' uscita, valutando l'
opportunità di fermarsi alla prima stazione di servizio che avesse
incontrato per consumare un improbabile caffè così forte da fargli
passare il peso che cominciava a gravargli sulle palpebre.
Respirò profondamente la spessa
aria satura di umidità, dando un'occhiata distratta al tachimetro.
Voleva assolutamente evitare di rovinare quella settimana tutto
sommato abbastanza fortunata con una contravvenzione per eccesso di
velocità.
Per questo teneva l'auto al disotto
dei centoventi, andatura che gli avrebbe consentito anche una certa
sicurezza nel caso di una frenata improvvisa visto che per il caldo
afoso, gli riusciva impossibile sopportare l'opprimente fasciatura
pettorale della cintura di sicurezza.
Si considerava un uomo prudente,
Rabboni, ma sapeva che ogni statistica era contro di lui: aveva
percorso troppi chilometri e aveva un numero di incidenti
decisamente al di sotto della media.
Ecco perché adesso, anche se la
strada era deserta e il desiderio di arrivare impellente, preferiva
non spingere a fondo l'acceleratore. Si asciugò il sudore dal collo
con il fazzoletto ormai fradicio e strusciò la schiena contro la
spalliera del sedile, come un orso che si gratti contro il tronco di
un albero, cercando di una posizione leggermente più comoda.
Viaggiava da diverse ore ed aveva i muscoli delle gambe irrigiditi e
contratti.
Ora però avvertiva una sottile lama
di ansia che cominciava ad insinuarglisi fastidiosamente nel petto,
ma non riusciva ancora a definire di che cosa si trattasse.
Automaticamente i suoi occhi passarono in rivista la strumentazione
del cruscotto, ma tutti gli indicatori erano al posto giusto, immersi
nella loro verde fluorescenza. Di nuovo riportò lo sguardo con
attenzione sulla strada illuminata dalla lunga teoria di luci color
arancio che correva al centro della volta del tunnel, ma sentiva
sempre l'indefinita sensazione di disagio che gli montava lentamente
lungo la spina dorsale fino ad arrivare ad increspargli i capelli
sulla nuca, quando si rese conto con stupore che era al chiuso da
troppo tempo, e che non esistevano gallerie così lunghe su quel
tragitto.
Istintivamente tolse il piede
dall'acceleratore e considerò rapidamente la possibilità di aver
sbagliato strada, ma scartò subito l'ipotesi ben sapendo che non
c'erano raccordi o deviazioni da prendere per tornare a casa sua, né
tantomeno poteva aver addirittura sbagliato direzione al casello di
ingresso, in quanto ricordava perfettamente tutte le stazioni di
servizio superate e anche i cartelli indicatori che ogni tanto aveva
guardato per stabilire la sua distanza dal sospirato riposo.
L'auto cominciò a rallentare
sensibilmente mentre Rabboni cercava di intravedere il successivo
segnale stradale che gli rivelasse che razza di idiota era stato e su
quale maledetta autostrada stesse viaggiando, ma le pareti del tunnel
erano nudo cemento annerito dalla fuliggine dei gas di scarico.
Con un gesto di stizza, scalò di
una marcia e pigiò forte sull'acceleratore, deciso ad uscire il più
rapidamente possibile all'aperto dove i cartelli con le indicazioni
si ripetevano immancabilmente ogni chilometro, e intanto cercò di
ricordare l'ultimo segnale luminoso che, ne era certo, aveva visto
poco prima di imboccare la galleria. Ci aveva fatto caso più che
altro per l'indicazione della temperatura che quella notte gli
sembrava davvero eccessiva.
18/07/86 TRAFFICO REGOLARE, recitava
il cartello, e più sotto ORE 22.30 TEMP. 29°C, VIAGGIATE CON
PRUDENZA nessuna indicazione però riguardo alla distanza dal
prossimo casello o sul numero della autostrada.
Mario Rabboni maledisse ad alta voce
il suo lavoro, la stanchezza e l'abitudine a guidare come un automa
che non ti fa più vedere quello che hai intorno, ma solo l' asfalto
e la strumentazione davanti a te. Infilò rabbiosamente la quinta e
spinse a centosessanta giustificandosi di quella piccola imprudenza
con il fatto che la galleria era completamente deserta.
A quella constatazione di nuovo
sentì un solletico alla nuca, mentre il cuore con un sussulto gli
suggerì un nuovo motivo d’inquietudine in quanto era sicuro che da
quando era entrato nel ventre di quello smisurato cetaceo, non aveva
più incontrato alcuna vettura, e una rapida occhiata nel retrovisore
gli confermò che nessun’auto lo seguiva.
I catarifrangenti dei guard-rail
restituivano la luce dei fari con gialli ammiccamenti, e anche oltre,
la distanza era scandita dai piccolissimi occhi, senza che nulla
interrompesse quella sequela di minuscoli lampi.
Il tunnel sembrava in leggera
discesa ed era perfettamente rettilineo ma Rabboni sentiva una specie
di resistenza al suo passaggio, come se l'auto stesse affrontando una
lieve salita o come se le gomme, trattenute da un asfalto vischioso
si sforzassero di rotolare sulla nera lingua di quella bocca
spalancata. Allora, mentre la macchina correva ai limiti delle sue
capacità senza che gli riuscisse ad intravedere la fine della
galleria, per la prima volta Rabboni venne sfiorato dal pensiero che
forse era prigioniero della montagna e che quel tunnel non avesse
fine.
Fu solo per un attimo, subito
sorrise tra sé e sé di quell'immagine assurda allontanandola, ma un
residuo d’impressione gli rimase in fondo alla mente, come gli era
capitato una volta all'aeroporto, quando aveva atteso oltre ogni
ragionevole ritardo il volo con cui Laura rientrava da un viaggio in
Inghilterra.
Era successo di notte, e nonostante
le rassicurazioni del personale della compagnia aerea che sostenevano
che il ritardo fosse dovuto ad un banale guasto meccanico quando
l'aeromobile (avevano detto proprio così, aeromobile) era ancora a
terra a Londra, a lui erano sembrate scuse accampate per nascondere
l'evidenza di una disgrazia ormai già avvenuta, tanto che l'arrivo
di sua moglie gli aveva procurato oltre ad una immensa gioia, anche
una certa meraviglia, e la strana sensazione di essere stato
ingannato non lo lasciò per diversi giorni.
Immerso nel ricordo di
quell'episodio aveva per un attimo trascurato la strada, e fu solo
per quella capacità acquisita da tutti i guidatori con chilometri di
esperienza, che i suoi sensi registrarono una piccola variazione
nell'omogenea parete della galleria.
Frenò d'istinto, ma l'automobile
così lanciata proseguì ancora velocemente facendo stridere i
pneumatici per parecchie decine di metri, fino a che si fermò del
tutto costringendolo a fare retromarcia.
Prima di scendere dall'auto Rabboni
si chiese se dovesse azionare i lampeggiatori di emergenza e ancora
guardò nel retrovisore la strada deserta dietro di sé. Poi
rassegnato ai gesti di una inutile prudenza schiacciò il pulsante,
tirò il freno a mano e scese dalla vettura senza spegnere il motore.
Sulla parete di fronte si apriva un largo passaggio che comunicava
con l'altro senso di marcia del tunnel.
Attraversò la carreggiata e si
trovò davanti al pozzo buio, nel quale la luce delle lampade non
riusciva ad entrare. Esitò un istante, trattenuto più che dal tanfo
di umido e di stantio che esalava dal passaggio, dalla istintiva
repulsione che gli ispirava la mancanza di luce e dall'idea che un
ratto o qualche altro animale disgustoso potesse abitare le pareti
del condotto.
Decise per un'andatura
dignitosamente veloce, che gli consentisse di attraversare quel
piccolo tunnel sotto il tunnel, senza che il suo amor proprio ne
soffrisse troppo e senza che qualche ragno potesse finirgli tra i
capelli.
Come era naturale, l'altro tratto
della galleria si presentava del tutto identico al primo, anche
questo totalmente privo di qualsiasi indicazione e completamente
silenzioso. " Eppure - pensò Rabboni - non é poi molto tardi,
saranno al massimo le undici! " e si guardò il polso nudo.
Ricordò allora che un paio di ore prima si era sfilato l'orologio
che il sudore gli appiccicava continuamente ai peli del braccio e lo
aveva poggiato sul cruscotto.
Rimase per qualche minuto immobile
con l'orecchio teso al rumore di un eventuale clacson e lo sguardo
alla sua auto, sperando che qualcuno la sorpassasse, ma l'unico
insulto alla perfezione del silenzio era causata dal suo motore in
funzione.
Cominciava a rendersi conto
dell'assurdità dell'intera faccenda, ma la paura provata poco prima
sembrava adesso controllata dalla curiosità e dalla voglia di
comprendere che cosa gli stesse capitando. Ritornò alla macchina
riattraversando velocemente lo spazio buio e si rimise al volante
incerto sul da farsi.
Il borbottio del diesel gli impediva
di pensare con lucidità.
Spense il motore.
Adesso il silenzio era completo ed
opprimente "Ma, - ragionò Rabboni - alla fine... qui sotto non
può accadermi nulla di pericoloso. Ed in verità a parte il caldo
umido che però regnava anche all'esterno, la sua situazione non gli
sembrava particolarmente allarmante, ma piuttosto incomprensibile,
anzi a rigor di logica essa era semplicemente impossibile.
Inspirò a fondo l'aria salmastra
del tunnel e sentì un lieve frullo d'ali alla bocca dello stomaco.
La paura che lentamente ricominciava
a farsi largo in lui era la stessa che prende chiunque di fronte
all'inesplicabile, quando i pensieri sembrano palline da ping-pong
che vanno e vengono continuamente da una possibilità all'altra,
senza riuscire a fermarsi su nessuna spiegazione convincente. L'unica
cosa da fare per vincere quell'ansia era uscire da lì dentro.
Girò la chiave dell'accensione per
rimettere in moto, ma non accadde niente, tranne che la verdognola
luminosità del quadro diminuì sensibilmente mentre il motorino
d’avviamento faceva un clic per niente rassicurante.
Rabboni chiuse gli occhi e appoggiò
sconfortato il capo sul poggiatesta. Aveva troppa esperienza di
batterie e di quell'auto per non sapere che non c'era nulla da fare
per tentare di ripartire, ma nonostante questo, imprecando tra i
denti si accinse a tutti i tentativi di rito per cercare di riavviare
il motore.
Pregò, scongiurò, blandì il dio
della meccanica di aiutarlo ben sapendo che quando questa divinità
decide di ordire la Congiura degli Oggetti, non c'è nulla che possa
opporvisi e che ogni goffo tentativo di un poveraccio di spezzare la
catena di eventi sfavorevoli si rivolge sempre a suo danno: forbici
affilatissime non tagliano, oggetti minuscoli cadono dalle mani e
svaniscono nel nulla, scale pieghevoli non si piegano se non a prezzo
delle dita, la chiave inglese é sempre troppo larga e il dado così
arrugginito da sembrare saldato al perno.
Anche quella volta, la regola fu
rispettata appieno e a Rabboni non restò altro che lo spareggio tra
la lunga attesa di un automobilista che potesse soccorrerlo o una
ancora più lunga passeggiata fino all'esterno del tunnel nella
speranza di trovare un Motel o almeno una stazione di servizio per
cercare di recuperare la macchina.
I tentativi di risolvere il problema
contingente avevano distolto i suoi pensieri dalle fantasie sulla
lunghezza della galleria, ma ora che si era risolto di proseguire a
piedi, l'inquietudine mai completamente sopita, cominciò a farsi
risentire come un volo di farfalle impazzite dentro la pancia.
Valutò per qualche secondo la
convenienza di tornare indietro piuttosto che andare avanti, ma poi
ragionò che per quanto potesse essere lungo lo stramaledetto tunnel,
sicuramente la strada che rimaneva da fare per uscirne era inferiore
a quella già fatta.
Aprì il bagagliaio e decise di
portare con sé soltanto la valigetta da lavoro e la torcia
elettrica, per rendersi più visibile alle auto quando sarebbe stato
fuori, nella notte. Trovò il triangolo di emergenza e andò a
sistemarlo ad una ventina di passi dalla macchina, nonostante questa
fosse perfettamente visibile nella vivida luce gialla della galleria,
e chiuso a chiave lo sportello si avviò di buon passo, cercando di
ignorare il pensiero che si agitava sul fondo del suo animo riguardo
all’improbabilità che tutto quello che gli stava succedendo stesse
accadendo per davvero.
Dopo quello che a lui sembrò circa
un chilometro, la galleria piegava dolcemente verso destra
nascondendogli lentamente il percorso appena fatto e dopo qualche
minuto Rabboni vide distintamente una luce verde apparire sulla
parete della carreggiata di sorpasso.
Vi si diresse risolutamente e mano a
mano che si avvicinava, si accorse che l'insegna luminosa
rappresentava un omino che apre una porta. Accelerò il passo finché
arrivò ad un andito che si apriva sul fianco del tunnel, chiuso sul
fondo da due battenti di acciaio inossidabile.
La porta non aveva maniglia, e
Rabboni pensò che fosse incernierata a molla, infatti, sotto la sua
spinta si aprì dolcemente. Dava su un piccolo locale di servizio con
il pavimento di cemento, illuminato da due fioche lampade laterali, e
che aveva al centro una scala a chiocciola. Si appoggiò con prudenza
al corrimano per non sporcarsi di ruggine e di polvere.
Alzò gli occhi nel tentativo di
scorgere dove conducesse, ma la vista era impedita dai gradini. Con
il cuore aperto alla speranza, cominciò a salire su per gli scalini
badando a non battere la testa e cercando di poggiare bene i piedi,
timoroso di una caduta che avrebbe potuto fratturargli una gamba, e
che in quel frangente avrebbe significato forse anche la morte, data
l'impossibilità di essere soccorso.
La scala smontava su di un angusto
pianerottolo ad un lato del quale vi era una porta uguale alla
precedente, tranne per il fatto di essere ad un unico battente.
Ansante, ma sollevato Rabboni spinse l'anta come aveva fatto con
quella più in basso, ma questa non si mosse di un solo millimetro.
Furioso, lasciò cadere in terra la sua borsa e con tutte e due le
braccia tese in avanti appoggiò violentemente le palme delle mani
sull'acciaio freddo, dando un deciso colpo di reni, ma la porta non
diede segno di cedimento alcuno, neanche quando ormai quasi piangente
cominciò a prenderla a spallate.
Quando riemerse nella liquida luce
gialla della galleria, Rabboni aveva rimediato una spalla dolorante,
ma in compenso il suo morale era a pezzi e la speranza di uscire da
quell'incubo si affievoliva sempre di più. Riprese a camminare,
trascinandosi dietro l'immancabile borsa che in tanti anni di lavoro
era diventata ormai una sua appendice. A volte quando usciva la
domenica, trasaliva al pensiero di averla dimenticata da qualche
parte, il cuore gli dava un tuffo e per un attimo si sentiva nudo.
Come si sentiva nudo adesso,
accorgendosi che non aveva riallacciato l'orologio sul polso,
lasciandolo in macchina.
Aveva perso il senso del tempo, gli
sembrava che fossero passate delle ore da quando si era incamminato
verso un’impossibile uscita e sentiva una stanchezza nelle gambe
che non si giustificava con il breve cammino percorso. Avvertiva il
sottile orrore di un luogo pensato e costruito per condurre e che
invece non portava da nessuna parte e capì che perdersi in un posto
ben definito e circoscritto non è meno spaventoso che smarrirsi
nella vastità di un oceano. Caparbiamente si costrinse a proseguire
lungo il serpente di luce che, ora n’era certo, non portava
all'esterno, ma s’inoltrava sempre di più nelle viscere della
montagna che lo sovrastava.
Il pensiero dei milioni di metri
cubi di roccia che gli gravavano sopra la testa, il caldo soffocante
che lo costringeva ad inalare un'aria bagnata e pesante gli rendevano
difficile ogni movimento, e quando Rabbonii scorse l'inconfondibile
insegna di un telefono pubblico la sua andatura fino ad allora
soltanto goffa, divenne addirittura pietosa nel frenetico tentativo
di corsa che lo mandò a rovinare sull'asfalto più volte.
Come dio volle riuscì a raggiungere
la cavità che conteneva il telefono fissato alla parete.
Con un ruggito urlò che questa
volta non l'avrebbero fregato, aveva un mucchio di monetine in tasca
e persino una scheda magnetica quasi nuova.
Tutta roba utilissima se
l'apparecchio avesse funzionato, ma a qualsiasi tentativo questo
risultò stolidamente muto. Strappò via filo e cornetta, e li
ridusse minuziosamente in pezzettini calpestandoli. Poi,
improvvisamente scoppiò a piangere.
Intuì che non era la stanchezza che
stava per sopraffarlo, ma lo scoraggiamento.
La rinuncia però non gli sembrò
insopportabile, in qualche modo lo sollevava, e il desiderio di
abbandonarsi ad un riposo che gli calmasse i battiti del cuore fino a
fermarglieli fu più forte della voglia di tornare a casa.
Fu allora che Rabboni capì che non
esisteva alcun’uscita, che nessun’automobile sarebbe passata per
condurlo via di lì, e che non c'era più nessuno all'esterno che lo
aspettasse, nessun luogo dove andare, nessun posto dove stare al di
fuori della gialla, luminosa, infinita galleria. Non sarebbe rinato
alla luce, non avrebbe affrontato di nuovo la fatica del giorno e
forse, al suo cuore in tumulto non dispiacque potersi riposare nel
tiepido ventre della terra.
Si lasciò scivolare sull'asfalto e
chiuse gli occhi.
Mario Rabboni venne soccorso da un
camionista di passaggio, che si era fermato vedendo la macchina
azzurra addossata al guard rail, immediatamente dopo l'ingresso del
tunnel.
Era seduto al volante dell'auto con
il motore ancora acceso, il capo reclinato sul poggiatesta.
Quando lo trovarono, l'orologio sul
suo polso segnava le 22.45 e il medico dell'ambulanza che lo portò
via disse che l'infarto lo aveva fulminato non più di dieci minuti
prima.
Ma il tempo si sa, é solo
un'invenzione dell'uomo.
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