venerdì 3 agosto 2012

Il barile di Amontillado


Avevo sopportato come meglio potevo le mille offese di Fortunato; ma la volta ch'egli si lasciò andare ad insultarmi, giurai vendetta.
Voi, che conoscete a fondo la natura della mia anima, non supporrete certo che gli abbia fatto qualche minaccia. Alla fine, avrei avuto la mia vendetta: questo era un punto definitivamente fermo; ma lo stesso carattere definitivo della mia risoluzione escludeva ogni idea di rischio. Non soltanto dovevo punire, bisognava anche che punissi impunemente. Non si rimedia un torto se il castigo viene poi a ricadere su colui stesso che castiga. Così pure se il vendicatore manca di farsi conoscere da chi commise il torto.
Bisogna tenere per inteso che io, né con qualche parola né per qualche fatto, avevo dato a Fortunato ragione di dubitare della mia benevolenza. Secondo la mia abitudine continuai a sorridergli sulla faccia, e lui non indovinò che sorridevo, adesso, per il pensiero di immolarlo.
Aveva un punto debole - questo Fortunato - sebbene sotto ogni altro riguardo fosse un uomo da rispettarsi e anche da temersi. Egli si vantava d'essere un intenditore di vini. Ma di italiani che abbiano veramente la virtù dell'intenditore ce ne sono ben pochi. Per la maggior parte il loro entusiasmo è tagliato su misura in ragione del tempo e dell'occasione; tanto quanto basta a infinocchiare i millionnaires inglesi ed austriaci. Così in materia di quadri e di gioielli Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano; ma a proposito di vini era invece sincero. In questo io non ero da meno di lui; la sapevo lunga in fatto di prodotti italiani, e ne acquistavo
largamente tutte le volte che potevo.
Una sera, sull'imbrunire, proprio nei giorni che più infuriava il carnevale, incontrai il mio amico. Egli mi avvicinò con eccessiva cordialità. Doveva aver bevuto parecchio. Ed era mascherato. Indossava un vestito aderente, a colori contrapposti, e portava in testa un cappello conico adorno di sonagli. Fui così felice di vederlo che non avrei più finito, ritengo, di storcergli la mano.
Gli dissi: "Mio caro Fortunato, vi incontro proprio a proposito. Che bella cera avete oggi! Ma io, vedete, ho ricevuto una botte di vino che mi garantiscono per Amontillado, e ho i miei dubbi." "Come? — fece lui. — Amontillado? Una botte? È impossibile, in pieno carnevale!" 
"Difatti ho i miei dubbi, — replicai — e sono stato tanto sciocco da pagare tutto il prezzo dell'Amontillado senza prima consultarvi. Non è stato possibile trovarvi, e io non volevo perdere un'occasione." 
"Amontillado!"
"Ho i miei dubbi." 
"Amontillado!"
"E li voglio soddisfare." 
"Amontillado!"
"Giacché avete da fare, vado a cercare Lucchesi. Ha del senso critico, lui. E mi dirà..." 
"Lucchesi non è capace di distinguere l'Amontillado dallo Xeres."
"E tuttavia ci sono degli idioti che presumono se ne intenda quanto voi." 
"Andiamo." 
"Dove?"
"Nelle vostre cantine." 
"Ma no, amico mio; non voglio approfittare della vostra bontà. Vedo che siete impegnato. Lucchesi..." 
"Non ho nessun impegno; andiamo!" 
"No, amico mio. Non dico per l'impegno, ma per il raffreddore che vi tormenta, come vedo. E le cantine sono insopportabilmente umide. Sono tutte incrostate di nitro." 
"Andiamo, non importa! Il raffreddore non è niente. Amontillado! Ve l' hanno data a bere. E quanto a Lucchesi, non è capace di distinguere l'Amontillado dallo Xeres."
Così parlando Fortunato s'impadroni del mio braccio. E io, messa che mi ebbi sul viso una maschera di seta nera, e inviluppatomi in un mantello, mi lasciai trascinare al mio palazzo.  Non c'erano domestici in casa; s'erano squagliati per darsi buon tempo in onore della stagione. Avevo detto loro che non sarei ritornato prima della mattina, e dato loro l'ordine categorico di non muoversi dalla casa. Ordine che sapevo sufficiente a garantirmi la loro immediata scomparsa, dal primo all'ultimo, non appena avessi voltato le spalle.
Presi due fiaccole dai loro candelabri e, datane una a Fortunato, feci strada a furia di riverenze per svariate file di stanze sino all'androne che immetteva nelle cantine. Poi lo condussi giù per una lunga e tortuosa scala raccomandandogli di esser cauto nel seguirmi. Infine arrivammo in fondo, e ci trovammo insieme sul suolo umido delle catacombe dei Montresòrs.
Il mio amico era malfermo sulle gambe, e i sonagli del suo berretto tintinnavano ad ognuno dei suoi passi.
"E la botte?" chiese.
"È più in là — feci io. — Ma guardate come luccicano di bianco le pareti di questa cantina."
Egli si voltò a guardarmi negli occhi coi suoi due globi velati che distillavano l'umore dell'ubriachezza. 
"Il nitro? — chiese infine." 
"Nitro — risposi. — Da quanto tempo avete questa tosse?" 
"Ugh! ugh! ugh!... ugh! ugh! ugh!... ugh! ugh! Ugh!"
Non fu possibile al mio povero amico di rispondere prima di alcuni minuti.
"Non è nulla" egli disse, infine.
"Venite, — dissi io, con fermezza — torniamo via; la vostra salute è preziosa. Voi siete ricco, rispettato, ammirato, amato; siete felice come lo fui io una volta. Dovete risparmiarvi. Per me, non importa. Torniamo via; se no vi ammalerete e io non voglio averne la responsabilità. Del resto, c'è Lucchesi..." 
"Oh basta...!" esclamò.
"La tosse non significa un bel nulla. Non mi ammazzerà mica. Non si muore per la tosse." 
"Vero... vero... — risposi — ma non avevo nessuna intenzione di allarmarvi senza necessità; solo che voi dovreste prendere delle precauzioni. Ecco, un sorso di questo Médoc vi proteggerà dall'umido." E così detto feci saltare il tappo a una bottiglia che presi su da una lunga fila di bottiglie compagne coricate sulla muffa del suolo. 
"Bevete" dissi, presentandogliela.
Egli si portò la bottiglia alle labbra, guardandomi con la coda dell'occhio. Poi si fermò, accennando a me familiarmente con la testa, sicché i sonagli tintinnarono. 
"Bevo — disse — ai defunti che riposano intorno a noi!" 
"E io alla vostra salute!
Egli mi riprese il braccio, e continuammo il cammino." 
"Queste cantine — osservò — sono molto estese."
"I Montresòrs — gli risposi — erano una grande e numerosa famiglia." 
"Com'è il vostro emblema? L'ho dimenticato." 
"Un piede umano tutto in oro su campo azzurro; e schiaccia un serpe rampante che affonda le zanne nel tallone."
"E il motto?"
"Nemo me impune lacessit."
"Bello!" concluse lui.
Nei suoi occhi scintillava il vino, e i sonagli tintinnavano. Il Médoc aveva scaldato anche la mia fantasia. Attraverso muraglie di ossa ammonticchiate, intramezzate di barili e di trombe da vino, eravamo penetrati negli intimi recessi delle catacombe. Di nuovo mi fermai, e stavolta spinsi la mia audacia fino a prendere Fortunato per un braccio, più su del gomito. 
"Il nitro, — dissi — vedete, qui aumenta. Pende come muschio dalle volte. Ci troviamo sotto il letto del fiume. Le gocce dell'umidità filtrano attraverso le ossa dei morti. Venite, andiamocene, prima che sia troppo tardi. La vostra tosse..." 
"Ma non è nulla, — fece lui — continuiamo. Prima, però, un altro sorso di Médoc."
Stappai una bottiglia di Grave e gliela porsi. Egli la vuotò d'un fiato.
I suoi occhi fiammeggiarono. E si mise a ridere, e lanciò la bottiglia per aria con un gesto che non riuscii a capire. Lo guardai sorpreso. Egli ripetè il gesto, grottesco. 
"Non capite?" fece.
"No" risposi." 
"Allora non fate parte della loggia." 
"Come?"
"Dico che non siete massone." 
"Oh, si, si, — dissi — si, si." 
"Voi? Impossibile! Massone voi?" 
"Sì, lo sono" replicai.
"Un segno" diss'egli. 
"Eccolo" esclamai, tirando fuori una cazzuola di sotto alle pieghe del mio tabarro.
"Avete voglia di scherzare — fece lui retrocedendo di qualche passo. — Ma andiamo a vedere questo Amontillado.
"Sia" — convenni, riponendo l'arnese sotto il mio tabarro, e di nuovo offrendogli il braccio. Egli ci si appoggiò, pesante. Quindi riprendemmo il cammino in cerca dell'Amontillado. Passammo per una fila di basse arcate, scendemmo, passammo altri archi e ancora scendemmo, e arrivammo dentro a una cripta profonda dove l'aria impura faceva rosseggiare, più che splendere, le nostre fiaccole.
In fondo a questa cripta ne appariva un'altra meno spaziosa, le cui mura erano state rivestite di ossa umane, ammonticchiate l'una sull'altra fino alla volta alla maniera delle grandi catacombe di Parigi. Tre lati di codesta seconda cripta erano ancora ornati in questo modo, mentre dal quarto lato le ossa erano state tolte e gettate a terra, dove giacevano formando in un punto un mucchio d'una certa altezza. Attraverso il muro, rimasto in tal modo a nudo, si poteva vedere ancora una terza cripta, profonda non più di quattro piedi, larga circa tre, e alta sei o sette. Non sembrava costruita per qualche uso determinato.
Essa costituiva semplicemente l'intervallo tra due degli enormi pilastri che sostenevano la volta delle catacombe, e si addossava a uno dei granitici muri terminali di esse.
Invano Fortunato, sollevando la sua torcia infoschita, si sforzò di scrutare la profondità del recesso. La fioca luce non ci lasciò scorgere il fondo. 
"Avanti, — gli dissi — l'Amontillado è là. Lucchesi..." 
"È un ignorante" m'interruppe l'amico, e si avanzò per primo, vacillando.
Io gli tenevo dietro. In un attimo era arrivato all'estremità della nicchia, e vedendosi arrestato il cammino dalla roccia, si fermò tutto confuso e sbalordito. Un momento dopo io l'avevo incatenato al granito. C'erano infissi in questo due uncini di ferro distanti circa due piedi l'uno dall'altro in linea orizzontale. Da uno di essi pendeva una catena, dall'altro un catenaccio. Lanciare la catena attorno alla vita di Fortunato e assicurarla fu per me affare d'un minuto. Egli era troppo sbalordito per resistere. Estratta la chiave dal catenaccio, me ne uscii dalla nicchia rinculando. 
"Passate la mano sul muro, — gli dissi — e sentirete il nitro. Oh, qui è molto umido! Ancora una volta, vi scongiuro di tornare indietro. No? E allora è necessario che vi lasci. Ma prima vi prodigherò tutte le piccole attenzioni che posso." 
"L'Amontillado!" mormorò il mio amico che non si era ancora rimesso dal suo stupore. 
"Vero, — feci io — l'Amontillado."
E con queste parole misi le mani nel mucchio di ossami di cui ho già parlato.
Gettai le ossa da parte sinché venne allo scoperto una certa quantità di pietra da costruzione e di calcina, coi quali materiali, aiutandomi con la cazzuola, mi diedi fervidamente a murare l'entrata della nicchia. Avevo appena sistemato il primo strato della muratura, quando constatai che la sbornia di Fortunato era in gran parte evaporata. Il primo segno che ne ebbi fu un
gemito sordo venuto dal fondo della nicchia. Non era il grido di un ubriaco. Seguì un lungo silenzio ostinato. E sistemai il secondo strato, il terzo, il quarto; e allora sentii scuotere con rabbia la catena. Il rumore durò alcuni minuti, durante i quali, per goderne meglio, lasciai in sospeso il mio lavoro e mi sedetti tra gli ossami. Quando poi lo strepito s'acchetò ripresi la cazzuola e senza più interruzioni terminai il quinto, il sesto e il settimo strato. Così il muro m'era giunto quasi all'altezza del petto e di nuovo mi fermai, e sollevando le fiaccole feci un barlume di luce sul prigioniero.
Tutto un seguito di alte grida acute scaturì allora dalla gola di quella forma incatenata, e pareva mi respingessero violentemente indietro. Per un attimo esitai, tremai. Tirai fuori il mio stocco, e con esso mi misi a frugare dentro la nicchia. Ma un istante di riflessione bastò a rassicurarmi. Posai la mano sulla parete massiccia della catacomba e mi sentii soddisfatto. Ritornai al mio muro. E replicavo alle urla, le riecheggiavo, le accompagnavo; le sorpassavo in volume ed in forza. Così feci, e l'urlatore ammutolì.
Era mezzanotte allora, e la mia opera giungeva alla fine. Avevo terminato l'ottavo, il nono e il decimo strato. E già stavo per finire l'undicesimo, l'ultimo; cui non mancava più che una pietra da porre e murare. Era una pietra pesante e la sollevai con sforzo, poi cominciai ad adattarla al suo posto: quand'ecco scaturì dalla nicchia un ridere sordo che mi fece rizzare i capelli. Seguì una voce mesta che a stento riconobbi per quella del nobile Fortunato. 
"Ha! ha! ha!... he! he!... Una magnifica burla, a dire il vero, — fece la voce — una beffa eccellente! Ne rideremo proprio di cuore al palazzo... he! he! he!... il nostro vino!... eh! eh! 
"L'Amontillado" dissi. 
"He he! he!... he! he! he!... sicuro, l'Amontillado. Ma non si farà tardi? Non ci aspetteranno al palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Andiamo." 
"Sì, andiamo."
"Per l'amor di Dio, Montresòr!"
"Sicuro, per l'amor di Dio!"
Ma a queste parole aspettai invano, teso in ascolto, una risposta. M'impazientii. Chiamai ad alta voce.
"Fortunato!" 
Nessuna risposta. Chiamai di nuovo.
"Fortunato!"
Silenzio.
Cacciai una torcia dentro l'apertura che ancora restava e la lasciai cadere di là. Non venne altro che un tintinnio dei sonagli. Mi sentii mancare il cuore,senza dubbio per via dell'umidità delle catacombe. Mi affrettai a compiere la mia opera.
Spinsi l'ultima pietra al suo posto e la murai. Contro il nuovo muro tornai ad innalzare l'antico baluardo di ossami che, dopo mezzo secolo, nessun mortale ha ancora rimosso.
In pace requiescat!

Edgard Allan Poe                                                                   traduzione di Elio Vittorini





martedì 10 luglio 2012

La metamorfosi di Giggino


Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Giggino de Magistris si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po' la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d'abitazione, anche se un po' piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (deMagistris faceva il sindaco di una grande e popolosa città), stava appesa un'illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l'intero avambraccio.
Giggino girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo - si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale - si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un'altra dormitina?» pensò, ma non potè mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.
«Buon Dio,» pensò, «che mestiere faticoso ho scelto! Dover andare in municipio tutti i santi giorni... Ho molte più preoccupazioni che se lavorassi in proprio a casa, e per di più ho da sobbarcarmi a questa tortura dei viaggi, all'affanno delle coincidenze, a pasti irregolari e cattivi, a contatti umani sempre diversi, mai stabili, mai cordiali. All'inferno tutto quanto!» Sentì un lieve pizzicorino sul ventre; lentamente, appoggiandosi sul dorso, si spinse più in su verso il capezzale, per poter sollevare meglio la testa, e scoprì il punto dove prudeva: era coperto di tanti puntolini bianchi, di cui non riusciva a capire la natura; con una delle gambe provò a toccarlo, ma la ritirò subito, perché brividi di freddo lo percorsero tutto.
Si lasciò ricadere supino. «Queste levatacce abbrutiscono,» pensò. «Un uomo ha da poter dormire quanto gli occorre. Dire che certi sindaci fanno una vita da favorite dell'harem! Quante volte, la mattina, rientrando al municipio per buttare via le blatte rosse raccolte durante la notte, li trovo che stanno ancora facendo colazione. Mi comportassi io così col mio principale! Sarei sbattuto fuori all'istante. E chissà, potrebbe anche essere la miglior soluzione. Non mi facessi scrupolo per i miei genitori, già da un pezzo mi sarei licenziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo l'animo mio, roba da farlo cascar giù dallo scrittoio! Curioso poi quel modo di starsene seduto lassù e di parlare col dipendente dall'alto in basso; per giunta, dato che è duro d'orecchio, bisogna andargli vicinissimo. Be', non è ancora persa ogni speranza; una volta che abbia messo insieme abbastanza soldi da pagare il debito dei miei, mi ci vorranno altri cinque o sei anni, non aspetto neanche un giorno e do il gran taglio. Adesso però bisogna che mi alzi: l' autista arriva alle cinque.»
E volse gli occhi alla sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo cielo!» pensò. Erano le sei e mezzo: le sfere continuavano a girare tranquille, erano anzi già oltre, si avvicinavano ai tre quarti. Che la soneria non avesse funzionato? Dal letto vedeva l'indice ancora fermo sull'ora giusta, le quattro: aveva suonato, non c'era dubbio. E come mai, con quel trillo così potente da far tremare i mobili, lui aveva continuato pacificamente a dormire? Via, pacificamente proprio no; ma forse proprio per questo più profondamente. Che fare, ora?

Liberamente tratto da "La metamorfosi e altri racconti" di Franz Kafka





 

sabato 30 giugno 2012

Galleria


L'auto filava silenziosa sull'autostrada deserta e Rabboni con la coda dell'occhio controllò ancora una volta che i finestrini posteriori fossero aperti. Teneva tutti i vetri completamente abbassati, ciò nonostante sudava copiosamente e sentiva piccoli rivoli d'acqua scendergli giù per il collo a inzuppargli la camicia.
La macchina fendeva veloce l'aria immobile della calda notte estiva, illuminando l' asfalto ancora tiepido, e sembrava quasi alimentarsi delle lunghe strisce bianche che delimitavano le corsie.
Mario Rabboni guidava rilassato, quasi cullato dal sommesso pulsare del diesel, la nuca adagiata contro il poggiatesta e le mani che appena toccavano lo sterzo. Ogni tanto alzava gli occhi a guardare le stelle che punteggiavano la sua notte.
Quante volte negli anni trascorsi al volante, aveva visto quelle stesse luci fisse e immutate accompagnarlo lungo l'autostrada verso casa, a volte soddisfatto, ma altre, più spesso, deluso e amareggiato dai fiacchi risultati della sua giornata di commesso viaggiatore.
Non gli era mai piaciuto quel lavoro, ma lo aveva accettato inizialmente come l'unica possibilità di migliorare le sue precarie condizioni economiche e poter uscire dalla asfissiante atmosfera della famiglia paterna. Era servito a procurargli i mezzi per comperare una casa e sposare Laura; in seguito si era trovato invischiato in una ragnatela di amicizie e di rapporti dovuti a quella attività talmente fitta, che aveva rinunciato a spezzarla.
Con il tempo però aveva perso completamente interesse per quello che faceva, e soprattutto per quello che diceva. Nel parlare con i clienti raccontava sempre gli stessi falsi aneddoti, utilizzando un repertorio di personaggi e di conversazioni sperimentate in anni di lavoro che se da un lato producevano l'apprezzabile risultato di fargli concludere le sue vendite, dall'altro lo lasciavano sempre di più svuotato e insoddisfatto per la qualità delle sue giornate.
La notte si era fatta più fresca e mano a mano che i chilometri scorrevano il desiderio di trovarsi già a casa si faceva sempre più forte. La stanchezza accumulata durante la settimana gli pesava addosso e cominciava ad avvertire un vago intorpidimento che interpretò come sintomo di sonno. Per un attimo, lo colse addirittura un senso di vertigine, come una perdita di equilibrio che però durò solo una frazione di secondo.
Scosse la testa e concentrò la sua attenzione sulla galleria che stava percorrendo, un luminoso serpente giallo del quale non si intravedeva ancora l' uscita, valutando l' opportunità di fermarsi alla prima stazione di servizio che avesse incontrato per consumare un improbabile caffè così forte da fargli passare il peso che cominciava a gravargli sulle palpebre.
Respirò profondamente la spessa aria satura di umidità, dando un'occhiata distratta al tachimetro. Voleva assolutamente evitare di rovinare quella settimana tutto sommato abbastanza fortunata con una contravvenzione per eccesso di velocità.
Per questo teneva l'auto al disotto dei centoventi, andatura che gli avrebbe consentito anche una certa sicurezza nel caso di una frenata improvvisa visto che per il caldo afoso, gli riusciva impossibile sopportare l'opprimente fasciatura pettorale della cintura di sicurezza.
Si considerava un uomo prudente, Rabboni, ma sapeva che ogni statistica era contro di lui: aveva percorso troppi chilometri e aveva un numero di incidenti decisamente al di sotto della media.
Ecco perché adesso, anche se la strada era deserta e il desiderio di arrivare impellente, preferiva non spingere a fondo l'acceleratore. Si asciugò il sudore dal collo con il fazzoletto ormai fradicio e strusciò la schiena contro la spalliera del sedile, come un orso che si gratti contro il tronco di un albero, cercando di una posizione leggermente più comoda. Viaggiava da diverse ore ed aveva i muscoli delle gambe irrigiditi e contratti.
Ora però avvertiva una sottile lama di ansia che cominciava ad insinuarglisi fastidiosamente nel petto, ma non riusciva ancora a definire di che cosa si trattasse. Automaticamente i suoi occhi passarono in rivista la strumentazione del cruscotto, ma tutti gli indicatori erano al posto giusto, immersi nella loro verde fluorescenza. Di nuovo riportò lo sguardo con attenzione sulla strada illuminata dalla lunga teoria di luci color arancio che correva al centro della volta del tunnel, ma sentiva sempre l'indefinita sensazione di disagio che gli montava lentamente lungo la spina dorsale fino ad arrivare ad increspargli i capelli sulla nuca, quando si rese conto con stupore che era al chiuso da troppo tempo, e che non esistevano gallerie così lunghe su quel tragitto.
Istintivamente tolse il piede dall'acceleratore e considerò rapidamente la possibilità di aver sbagliato strada, ma scartò subito l'ipotesi ben sapendo che non c'erano raccordi o deviazioni da prendere per tornare a casa sua, né tantomeno poteva aver addirittura sbagliato direzione al casello di ingresso, in quanto ricordava perfettamente tutte le stazioni di servizio superate e anche i cartelli indicatori che ogni tanto aveva guardato per stabilire la sua distanza dal sospirato riposo.
L'auto cominciò a rallentare sensibilmente mentre Rabboni cercava di intravedere il successivo segnale stradale che gli rivelasse che razza di idiota era stato e su quale maledetta autostrada stesse viaggiando, ma le pareti del tunnel erano nudo cemento annerito dalla fuliggine dei gas di scarico.
Con un gesto di stizza, scalò di una marcia e pigiò forte sull'acceleratore, deciso ad uscire il più rapidamente possibile all'aperto dove i cartelli con le indicazioni si ripetevano immancabilmente ogni chilometro, e intanto cercò di ricordare l'ultimo segnale luminoso che, ne era certo, aveva visto poco prima di imboccare la galleria. Ci aveva fatto caso più che altro per l'indicazione della temperatura che quella notte gli sembrava davvero eccessiva.
18/07/86 TRAFFICO REGOLARE, recitava il cartello, e più sotto ORE 22.30 TEMP. 29°C, VIAGGIATE CON PRUDENZA nessuna indicazione però riguardo alla distanza dal prossimo casello o sul numero della autostrada.
Mario Rabboni maledisse ad alta voce il suo lavoro, la stanchezza e l'abitudine a guidare come un automa che non ti fa più vedere quello che hai intorno, ma solo l' asfalto e la strumentazione davanti a te. Infilò rabbiosamente la quinta e spinse a centosessanta giustificandosi di quella piccola imprudenza con il fatto che la galleria era completamente deserta.
A quella constatazione di nuovo sentì un solletico alla nuca, mentre il cuore con un sussulto gli suggerì un nuovo motivo d’inquietudine in quanto era sicuro che da quando era entrato nel ventre di quello smisurato cetaceo, non aveva più incontrato alcuna vettura, e una rapida occhiata nel retrovisore gli confermò che nessun’auto lo seguiva.
I catarifrangenti dei guard-rail restituivano la luce dei fari con gialli ammiccamenti, e anche oltre, la distanza era scandita dai piccolissimi occhi, senza che nulla interrompesse quella sequela di minuscoli lampi.
Il tunnel sembrava in leggera discesa ed era perfettamente rettilineo ma Rabboni sentiva una specie di resistenza al suo passaggio, come se l'auto stesse affrontando una lieve salita o come se le gomme, trattenute da un asfalto vischioso si sforzassero di rotolare sulla nera lingua di quella bocca spalancata. Allora, mentre la macchina correva ai limiti delle sue capacità senza che gli riuscisse ad intravedere la fine della galleria, per la prima volta Rabboni venne sfiorato dal pensiero che forse era prigioniero della montagna e che quel tunnel non avesse fine.
Fu solo per un attimo, subito sorrise tra sé e sé di quell'immagine assurda allontanandola, ma un residuo d’impressione gli rimase in fondo alla mente, come gli era capitato una volta all'aeroporto, quando aveva atteso oltre ogni ragionevole ritardo il volo con cui Laura rientrava da un viaggio in Inghilterra.
Era successo di notte, e nonostante le rassicurazioni del personale della compagnia aerea che sostenevano che il ritardo fosse dovuto ad un banale guasto meccanico quando l'aeromobile (avevano detto proprio così, aeromobile) era ancora a terra a Londra, a lui erano sembrate scuse accampate per nascondere l'evidenza di una disgrazia ormai già avvenuta, tanto che l'arrivo di sua moglie gli aveva procurato oltre ad una immensa gioia, anche una certa meraviglia, e la strana sensazione di essere stato ingannato non lo lasciò per diversi giorni.
Immerso nel ricordo di quell'episodio aveva per un attimo trascurato la strada, e fu solo per quella capacità acquisita da tutti i guidatori con chilometri di esperienza, che i suoi sensi registrarono una piccola variazione nell'omogenea parete della galleria.
Frenò d'istinto, ma l'automobile così lanciata proseguì ancora velocemente facendo stridere i pneumatici per parecchie decine di metri, fino a che si fermò del tutto costringendolo a fare retromarcia.
Prima di scendere dall'auto Rabboni si chiese se dovesse azionare i lampeggiatori di emergenza e ancora guardò nel retrovisore la strada deserta dietro di sé. Poi rassegnato ai gesti di una inutile prudenza schiacciò il pulsante, tirò il freno a mano e scese dalla vettura senza spegnere il motore. Sulla parete di fronte si apriva un largo passaggio che comunicava con l'altro senso di marcia del tunnel.
Attraversò la carreggiata e si trovò davanti al pozzo buio, nel quale la luce delle lampade non riusciva ad entrare. Esitò un istante, trattenuto più che dal tanfo di umido e di stantio che esalava dal passaggio, dalla istintiva repulsione che gli ispirava la mancanza di luce e dall'idea che un ratto o qualche altro animale disgustoso potesse abitare le pareti del condotto.
Decise per un'andatura dignitosamente veloce, che gli consentisse di attraversare quel piccolo tunnel sotto il tunnel, senza che il suo amor proprio ne soffrisse troppo e senza che qualche ragno potesse finirgli tra i capelli.
Come era naturale, l'altro tratto della galleria si presentava del tutto identico al primo, anche questo totalmente privo di qualsiasi indicazione e completamente silenzioso. " Eppure - pensò Rabboni - non é poi molto tardi, saranno al massimo le undici! " e si guardò il polso nudo. Ricordò allora che un paio di ore prima si era sfilato l'orologio che il sudore gli appiccicava continuamente ai peli del braccio e lo aveva poggiato sul cruscotto.
Rimase per qualche minuto immobile con l'orecchio teso al rumore di un eventuale clacson e lo sguardo alla sua auto, sperando che qualcuno la sorpassasse, ma l'unico insulto alla perfezione del silenzio era causata dal suo motore in funzione.
Cominciava a rendersi conto dell'assurdità dell'intera faccenda, ma la paura provata poco prima sembrava adesso controllata dalla curiosità e dalla voglia di comprendere che cosa gli stesse capitando. Ritornò alla macchina riattraversando velocemente lo spazio buio e si rimise al volante incerto sul da farsi.
Il borbottio del diesel gli impediva di pensare con lucidità.
Spense il motore.
Adesso il silenzio era completo ed opprimente "Ma, - ragionò Rabboni - alla fine... qui sotto non può accadermi nulla di pericoloso. Ed in verità a parte il caldo umido che però regnava anche all'esterno, la sua situazione non gli sembrava particolarmente allarmante, ma piuttosto incomprensibile, anzi a rigor di logica essa era semplicemente impossibile.
Inspirò a fondo l'aria salmastra del tunnel e sentì un lieve frullo d'ali alla bocca dello stomaco.
La paura che lentamente ricominciava a farsi largo in lui era la stessa che prende chiunque di fronte all'inesplicabile, quando i pensieri sembrano palline da ping-pong che vanno e vengono continuamente da una possibilità all'altra, senza riuscire a fermarsi su nessuna spiegazione convincente. L'unica cosa da fare per vincere quell'ansia era uscire da lì dentro.
Girò la chiave dell'accensione per rimettere in moto, ma non accadde niente, tranne che la verdognola luminosità del quadro diminuì sensibilmente mentre il motorino d’avviamento faceva un clic per niente rassicurante.
Rabboni chiuse gli occhi e appoggiò sconfortato il capo sul poggiatesta. Aveva troppa esperienza di batterie e di quell'auto per non sapere che non c'era nulla da fare per tentare di ripartire, ma nonostante questo, imprecando tra i denti si accinse a tutti i tentativi di rito per cercare di riavviare il motore.
Pregò, scongiurò, blandì il dio della meccanica di aiutarlo ben sapendo che quando questa divinità decide di ordire la Congiura degli Oggetti, non c'è nulla che possa opporvisi e che ogni goffo tentativo di un poveraccio di spezzare la catena di eventi sfavorevoli si rivolge sempre a suo danno: forbici affilatissime non tagliano, oggetti minuscoli cadono dalle mani e svaniscono nel nulla, scale pieghevoli non si piegano se non a prezzo delle dita, la chiave inglese é sempre troppo larga e il dado così arrugginito da sembrare saldato al perno.
Anche quella volta, la regola fu rispettata appieno e a Rabboni non restò altro che lo spareggio tra la lunga attesa di un automobilista che potesse soccorrerlo o una ancora più lunga passeggiata fino all'esterno del tunnel nella speranza di trovare un Motel o almeno una stazione di servizio per cercare di recuperare la macchina.
I tentativi di risolvere il problema contingente avevano distolto i suoi pensieri dalle fantasie sulla lunghezza della galleria, ma ora che si era risolto di proseguire a piedi, l'inquietudine mai completamente sopita, cominciò a farsi risentire come un volo di farfalle impazzite dentro la pancia.
Valutò per qualche secondo la convenienza di tornare indietro piuttosto che andare avanti, ma poi ragionò che per quanto potesse essere lungo lo stramaledetto tunnel, sicuramente la strada che rimaneva da fare per uscirne era inferiore a quella già fatta.
Aprì il bagagliaio e decise di portare con sé soltanto la valigetta da lavoro e la torcia elettrica, per rendersi più visibile alle auto quando sarebbe stato fuori, nella notte. Trovò il triangolo di emergenza e andò a sistemarlo ad una ventina di passi dalla macchina, nonostante questa fosse perfettamente visibile nella vivida luce gialla della galleria, e chiuso a chiave lo sportello si avviò di buon passo, cercando di ignorare il pensiero che si agitava sul fondo del suo animo riguardo all’improbabilità che tutto quello che gli stava succedendo stesse accadendo per davvero.
Dopo quello che a lui sembrò circa un chilometro, la galleria piegava dolcemente verso destra nascondendogli lentamente il percorso appena fatto e dopo qualche minuto Rabboni vide distintamente una luce verde apparire sulla parete della carreggiata di sorpasso.
Vi si diresse risolutamente e mano a mano che si avvicinava, si accorse che l'insegna luminosa rappresentava un omino che apre una porta. Accelerò il passo finché arrivò ad un andito che si apriva sul fianco del tunnel, chiuso sul fondo da due battenti di acciaio inossidabile.
La porta non aveva maniglia, e Rabboni pensò che fosse incernierata a molla, infatti, sotto la sua spinta si aprì dolcemente. Dava su un piccolo locale di servizio con il pavimento di cemento, illuminato da due fioche lampade laterali, e che aveva al centro una scala a chiocciola. Si appoggiò con prudenza al corrimano per non sporcarsi di ruggine e di polvere.
Alzò gli occhi nel tentativo di scorgere dove conducesse, ma la vista era impedita dai gradini. Con il cuore aperto alla speranza, cominciò a salire su per gli scalini badando a non battere la testa e cercando di poggiare bene i piedi, timoroso di una caduta che avrebbe potuto fratturargli una gamba, e che in quel frangente avrebbe significato forse anche la morte, data l'impossibilità di essere soccorso.
La scala smontava su di un angusto pianerottolo ad un lato del quale vi era una porta uguale alla precedente, tranne per il fatto di essere ad un unico battente. Ansante, ma sollevato Rabboni spinse l'anta come aveva fatto con quella più in basso, ma questa non si mosse di un solo millimetro. Furioso, lasciò cadere in terra la sua borsa e con tutte e due le braccia tese in avanti appoggiò violentemente le palme delle mani sull'acciaio freddo, dando un deciso colpo di reni, ma la porta non diede segno di cedimento alcuno, neanche quando ormai quasi piangente cominciò a prenderla a spallate.
Quando riemerse nella liquida luce gialla della galleria, Rabboni aveva rimediato una spalla dolorante, ma in compenso il suo morale era a pezzi e la speranza di uscire da quell'incubo si affievoliva sempre di più. Riprese a camminare, trascinandosi dietro l'immancabile borsa che in tanti anni di lavoro era diventata ormai una sua appendice. A volte quando usciva la domenica, trasaliva al pensiero di averla dimenticata da qualche parte, il cuore gli dava un tuffo e per un attimo si sentiva nudo.
Come si sentiva nudo adesso, accorgendosi che non aveva riallacciato l'orologio sul polso, lasciandolo in macchina.
Aveva perso il senso del tempo, gli sembrava che fossero passate delle ore da quando si era incamminato verso un’impossibile uscita e sentiva una stanchezza nelle gambe che non si giustificava con il breve cammino percorso. Avvertiva il sottile orrore di un luogo pensato e costruito per condurre e che invece non portava da nessuna parte e capì che perdersi in un posto ben definito e circoscritto non è meno spaventoso che smarrirsi nella vastità di un oceano. Caparbiamente si costrinse a proseguire lungo il serpente di luce che, ora n’era certo, non portava all'esterno, ma s’inoltrava sempre di più nelle viscere della montagna che lo sovrastava.
Il pensiero dei milioni di metri cubi di roccia che gli gravavano sopra la testa, il caldo soffocante che lo costringeva ad inalare un'aria bagnata e pesante gli rendevano difficile ogni movimento, e quando Rabbonii scorse l'inconfondibile insegna di un telefono pubblico la sua andatura fino ad allora soltanto goffa, divenne addirittura pietosa nel frenetico tentativo di corsa che lo mandò a rovinare sull'asfalto più volte.
Come dio volle riuscì a raggiungere la cavità che conteneva il telefono fissato alla parete.
Con un ruggito urlò che questa volta non l'avrebbero fregato, aveva un mucchio di monetine in tasca e persino una scheda magnetica quasi nuova.
Tutta roba utilissima se l'apparecchio avesse funzionato, ma a qualsiasi tentativo questo risultò stolidamente muto. Strappò via filo e cornetta, e li ridusse minuziosamente in pezzettini calpestandoli. Poi, improvvisamente scoppiò a piangere.
Intuì che non era la stanchezza che stava per sopraffarlo, ma lo scoraggiamento.
La rinuncia però non gli sembrò insopportabile, in qualche modo lo sollevava, e il desiderio di abbandonarsi ad un riposo che gli calmasse i battiti del cuore fino a fermarglieli fu più forte della voglia di tornare a casa.
Fu allora che Rabboni capì che non esisteva alcun’uscita, che nessun’automobile sarebbe passata per condurlo via di lì, e che non c'era più nessuno all'esterno che lo aspettasse, nessun luogo dove andare, nessun posto dove stare al di fuori della gialla, luminosa, infinita galleria. Non sarebbe rinato alla luce, non avrebbe affrontato di nuovo la fatica del giorno e forse, al suo cuore in tumulto non dispiacque potersi riposare nel tiepido ventre della terra.
Si lasciò scivolare sull'asfalto e chiuse gli occhi. 
                

Mario Rabboni venne soccorso da un camionista di passaggio, che si era fermato vedendo la macchina azzurra addossata al guard rail, immediatamente dopo l'ingresso del tunnel.
Era seduto al volante dell'auto con il motore ancora acceso, il capo reclinato sul poggiatesta.
Quando lo trovarono, l'orologio sul suo polso segnava le 22.45 e il medico dell'ambulanza che lo portò via disse che l'infarto lo aveva fulminato non più di dieci minuti prima.
Ma il tempo si sa, é solo un'invenzione dell'uomo.



lunedì 25 giugno 2012

Management


La R.P.L. CORPORATION LTD è una grande multinazionale. Ha assunto i suoi Top Manager col criterio della “catastrofe superata”, un sistema di selezione in largo uso negli U.S.A.
Un esempio ottimo di questo criterio è stato offerto dalla NASA in occasione delle missioni lunari.
Gli astronauti furono scelti in base alle situazioni critiche che avevano vissuto nel corso della loro carriera. Neil Armstrong fu abbattuto due volte nella guerra di Corea quando era pilota militare.
Paracadutato in zona nemica, riuscì sempre a cavarsela da solo. Questo garantiva abilità, nervi saldi, capacità di reazione. Anche per questo fu selezionato per diventare il primo uomo sulla Luna.
La R.P.L. CORPORATION LTD applica lo stesso principio nella scelta degli uomini di punta. Assume solo manager che abbiano attraversato fallimenti, catastrofi societarie, periodi di vendite disastrosi.
I cacciatori di teste della R.P.L. seguono con attenzione le grandi aziende concorrenti.
Quando una di loro comincia a perdere colpi i cacciatori di teste si informano sui suoi dirigenti, e più li sanno affondati nei debiti, nei guai giudiziari, negli insuccessi, più li corteggiano. “Si sono ficcati in un mare di merda” e “Non lasciamoceli scappare” sono le frasi che girano ai piani alti della R.P.L. CORPORATION LTD in queste circostanze.
Quando la concorrente va definitivamente in rovina, la R.P.L. rompe gli indugi e assume in blocco tutti i protagonisti del tracollo.



 

domenica 24 giugno 2012

La Manticora



Nei bestiari medievali la Manticora è descritta come una bestia che vive in India, con il volto d'uomo, del colore del sangue (rosso cinabro). Il corpo è del leone, la coda dello scorpione. Secondo Plinio, che riferisce le parole di Ctesia, medico greco di Artaserse Mnemone, essa ha tre ordini di denti connessi come quelli d'un pettine e una voce flautata con la quale attira i viaggiatori. La coda (o il corpo) è irto di aculei che vengono scagliati con forza all'intorno.



File:Mmantich.jpg





Sembra che il suo nome derivi dal  persiano mard khora che significa "mangiatrice d'uomini"


Flaubert nelle ultime pagine della "Tentazione di Sant' Antonio" la descrive così: 
" I marezzi del mio pelame scarlatto si confondono col riverbero delle grandi sabbie. Soffio dalle narici lo spavento delle solitudini. Sputo la peste. Mangio gli eserciti, quando s'avventurano nel deserto. Ho le unghie ritorte a succhiello, i denti tagliati a sega; e la mia coda roteante è irta di dardi che lancio a destra, a sinistra, in avanti, in dietro. Guarda! Guarda! (la manticora lancia le spine della coda, che si irradiano come frecce in tutte le direzioni. Gocce di sangue piovono schioccando sul fogliame.)"


Emerson Lake & Palmer hanno inciso per l'etichetta Manticore, come anche la PFM e il Banco del Mutuo Soccorso, e tutto questo sproloquio di oggi su quest'animale immaginario, mi è saltato fuori perchè cercavo il brano seguente, tratto da un concerto del 1971 (credo) The Sage, uno dei pezzi dell' Lp "Pictures at an exibithion" ispirato alla omonima opera di Musorgskij.


 
Forse si capisce che amo il Progressive.......

domenica 10 giugno 2012

Ray Bradbury

Pubblico un video che mi è piaciuto molto, si ispira ad una poesia di Sara Teasdale che lessi per la prima volta in uno dei brani che compongono "Cronache marziane".
Bradbury intitolò il brano come la poesia: Dolce cadrà la pioggia.
I coloni di Marte sono tutti ripartiti per la Terra dove si sta svolgendo un conflitto termonucleare globale. Sul pianeta non è rimasto nessuno, gli automatismi di una casa continuano a funzionare senza gli abitanti, inutilmente, stolidamente....
Il video l'ho trovato su Youtube e mi è sembrato che l'autore abbia colto perfettamente l'atmosfera di un day after dell' umanità.



La poesia l'avevo già pubblicata altrove in questo blog, quando qualcuno a cui tenevo se n'è andato per sempre.


sabato 9 giugno 2012

Ray Bradbury

L'estate del razzo

Fino ad un istante prima era ancora l'inverno dell' Ohio, le porte chiuse, i vetri alle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia d'ogni tetto, bimbi che sciavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate.
E a un tratto una lunga onda tiepida era passata sulla cittadina.
Una marea di aria calda, quasi che qualcuno avesse lasciato aperta la porta di una panetteria.
Il calore pulsava tra le casette, i cespugli, i ragazzi. Le stalattiti di ghiaccio si distaccavano rovinose e, in frantumi, si scioglievano rapidamente. le porte si spalancavano. I vetri delle finestre si alzavano impetuosi. 
I ragazzi buttavano via gli indumenti di lana. Le massaie si spogliavano delle loro pelli d'orso. La neve si scioglieva a mostrare la verde, antica prateria dell'ultima estate. 
L'estate del razzo.
Le parole passavano di bocca in bocca nele case aperte, bene aerate. 
L'estate del razzo.
La calda aria del deserto che mutava i ghirigori di ghiaccio sulle finestre, cancellava l'opera d'arte. Sci e slitte improvvisamente inutili. La neve, nel cadere dal cielo freddo sul villaggio, si trasformava in una pioggia torrida ancora prima di toccare il suolo. 
L' estate del razzo.
La gente si sporgeva di sotto le verande gocciolanti a spiare il cielo che si arrossava. Il razzo stava sul campo di lancio, eruttando rosee nubi di fuoco, esalando scoppi d'aria rovente. Il razzo si levava nella fredda mattina invernale e creava l'estate ad ogni respiro dei suoi possenti ugelli di scarico.
Il razzo faceva i climi, le stagioni, e l'estate fu per un breve istante sopra la terra....

Ray Bradbury  "Cronache marziane"



In settimana è morto Ray Bradbury, uno dei miei autori preferiti.

Ho letto molta fantascienza e posso dire con certezza che non era un autore di questo genere, ma un poeta del fantastico. 

La fantascienza è solo un'anticipazione della realtà e come tale ha l'obbligo di essere credibile, il fantastico, come la vita, no.

Chiunque abbia letto "Cronache marziane" o " Il popolo dell' autunno" molto più che " Fahrenheit 451" sa di che cosa sto parlando.

D'altra parte, esagerando si potrebbe affermare che tutta la letteratura è letteratura fantastica, salvo che qualcuno non voglia credere che Ulisse, Don Quichote, padre Brown o il commissario Montalbano siano personaggi reali.

Una volta Bradbury dichiarò che sarebbe stato felice se qualche ragazzo alla sua morte avesse scritto a matita sulla sua lapide "Egli raccontava favole".
Bene, io credo che lo si possa tranquillamente accontentare......











giovedì 17 maggio 2012

Martina



"L'immaginazione dell'uomo in materia
di mostri é limitata."
J.L.Borges

Enrico non riusciva a credere ai propri occhi.
Lì, proprio davanti a lui, sfilava un corteo di femministe.
Stava addentando un cornetto, quando tra il brusìo del bar, aveva distinto il tipico ritmo cadenzato degli slogan urlati alle manifestazioni, ed era uscito in strada per guardare cosa stesse accadendo.
Il gruppo delle dimostranti si era sforzato di interpretare alla lettera la più vieta iconografia della femminista anni '70: lunga gonna zingaresca e scialle sulle spalle, zoccoli ai piedi e fiori nei capelli. Persino le mani alzate in alto sulla testa con gli indici e i pollici uniti, contribuivano a dare al piccolo corteo un aspetto assolutamente anacronistico.
Per completare il quadro urlavano a gran voce, e le frasi gridate erano della serie "il corpo è mio......eccetera...eccetera".
Enrico, come molti altri passanti, era rimasto a bocca aperta a guardare le facce arrabbiate delle ragazze, cercando di ricordare quale potesse essere per loro la ricorrenza da festeggiare, ma non gliene venne in mente nessuna. Probabilmente la cosa era stata organizzata da qualche "Collettivo Donne" sopravvissuto negli anni, e in effetti le stesse partecipanti non sembravano molto convinte di quello che andavano urlando in coro. L'impressione complessiva era più di trovarsi ad assistere ad una sfilata in costume d'epoca, una cosa di cattivo gusto tipo Disneyland, per intenderci.
Enrico scosse la testa e si mosse per andar via, quando la sua attenzione fu attirata da una delle ragazze del corteo. Teneva tra le mani un cartello con l'abusata scritta "TREMATE, TREMATE, LE STREGHE SON TORNATE", ma a differenza delle altre aveva scelto per l'occasione un abbigliamento un po' meno scontato, si era vestita cioè come faceva probabilmente tutti i giorni: jeans, scarpe da ginnastica e un maglione di lana bianco a collo alto. Pur non essendo truccata, come d'obbligo per le militanti, le folte ciglia nere sembravano tracciarle una riga di matita sul bordo della palpebra inferiore, dando agli splendidi occhi verdi un accento orientaleggiante.
La bocca aveva labbra sottili, denti bianchissimi, e sembrava atteggiata in un broncio perenne.
Enrico, ligio alla mentalità corrente, aveva sempre pensato che le femministe dovessero necessariamente essere delle bruttone inacidite che avevano eletto l'uomo ad eterno nemico per irrisolvibili questioni di insoddisfazione sessuale. Ma naturalmente, come ogni maschio che si rispetti, si sentiva pronto ad abiurare le proprie idee se ci fosse stata l'opportunità di ridiscuterne con una bella donna, meglio se bruna e con gli occhi verdi come quella.
Gli piaceva al punto che si sentiva pronto alla conversione a qualsiasi fede politica o religiosa.
D'un tratto, quasi si fosse accorta di essere osservata, la ragazza si voltò ricambiando lo sguardo con intensità. Fece addirittura qualche passo nella sua direzione ma poi, come se si sentisse chiamare, si voltò di nuovo e riprese a seguire il corteo.
Enrico era rimasto immobile, imbarazzatissimo, in quanto non aveva dubbi che lei si fosse resa conto di aver suscitato la sua attenzione, e per un attimo aveva temuto che gli rivolgesse qualche parolaccia.
Gettò via quanto restava del cornetto e si diresse verso il palazzone della società dove lavorava. Per tutta la mattina non fece altro che pensare a quell'episodio, domandandosi come avrebbe potuto fare per incontrare nuovamente la donna, poi mano a mano che il lavoro lo assorbì, il ricordo di quegli occhi si confuse tra tutti gli occhi della sua giornata.
La mattina successiva sembrò che il destino provvedesse a risolvere il suo problema, infatti entrando nel solito bar si accorse che la bruna del giorno precedente era seduta in un angolo a fare colazione. Enrico sfoggiò uno dei suoi più smaglianti sorrisi e con il cappuccino in mano, andò a sedersi allo stesso tavolino.
La ragazza alzò gli occhi dalla pagina degli oroscopi e senza mostrare nessuna meraviglia per quella piccola invasione del suo spazio, chiese:
- Di che segno sei?
- Ariete, - rispose lui - ascendente Leone.
La ragazza strinse le labbra, arricciando il naso - Brutta congiunzione -
- Veramente io mi ci trovo benissimo - commentò Enrico, che ostentava la sicurezza del latin-lover, ma si rese conto che la conversazione appena iniziata prendeva già una piega idiota. Tentò di raddrizzare le cose buttandola sul banale, tipo cometichiami, dovelavori, comemainoncisiamoincontratiprima eccetera, ma intuì che se la ragazza era lì apposta per lui come sospettava, forse avrebbe potuto saltare i preliminari e chiederle un appuntamento.
Ancora una volta fu preceduto e Martina, così disse di chiamarsi, gli chiese direttamente:
- Usciamo insieme stasera o vuoi perderti l'occasione della tua vita?
Enrico non se la perse.

§ § § § § § § § § §

Dopo quella volta, si videro quasi tutti i giorni. Al mattino Enrico la incontrava al bar sotto l'ufficio, e la sera lei passava a prenderlo dal lavoro.
Martina viveva in una minuscola mansarda piena di luce, dal cui terrazzino si vedeva una distesa di tetti, e uno spicchio della piazza con il duomo.
In quelle due stanze, Enrico imparò a conoscere il carattere irrequieto della sua nuova ragazza.
Martina era una donna di mutevolissimo umore, e per lo più con indosso una strana malinconia, come se avesse dentro di sé un infinito rimpianto per il tempo passato. Le piaceva fantasticare ad occhi aperti, ma la sua immaginazione aveva sempre un che di triste, di malsano, e spesso i suoi racconti avevano il colore dell'autunno, la sua voce il suono delle stagioni morte, mentre narrava di luoghi nascosti tra il verde cupo dei boschi, dove la luce del sole non penetra mai.
Enrico l'ascoltava per ore, incantato da quella capacità di inventare sempre nuove storie, di immedesimarsi in personaggi e situazioni descritte con tale minuzia di particolari, da sembrare vissute in prima persona. Pensò che Martina dovesse aver letto una smisurata quantità di libri, ma qualsiasi tentativo di conoscere qualcosa della sua vita privata, veniva da lei regolarmente sviato; sembrava che volesse essere accettata per quella che era in quel momento, senza concedere niente di sé che fosse legato al suo passato. Lui aveva subìto questa tacita condizione perché il fascino che emanava dalla sua persona lo aveva letteralmente soggiogato.
Martina possedeva una carica di sensualità che Enrico non aveva mai conosciuto in nessuna donna. Il sesso tra loro era una specie di lotta accanita e sempre, quando facevano all'amore, era travolto da un'onda di sensazioni così forti che lo lasciavano poi spossato sulla spiaggia del sonno. Allora lei cominciava a fantasticare, a raccontare, e la sua voce si insinuava tra la veglia e l'incoscienza, lo distraeva dal torpore trascinandolo in territori della mente misteriosi e sorprendenti.
Anche quel giorno accoccolata al suo fianco Martina parlava, parlava, ed Enrico, con gli occhi socchiusi, ascoltava in silenzio il suono musicale della sua voce che narrava di un'epoca lontana, a lui sconosciuta, ma che lei invece sembrava aver vissuto fino al giorno prima.
- Pensa che una volta, per scherzo, feci impazzire l'asino del sagrestano. Se lo avessi visto, corrergli dietro lungo tutto il sentiero! - raccontava ridendo - Da piccola mi divertiva tanto fare cose incomprensibili agli altri bambini. Era eccitante sapere di avere una qualità straordinaria, solo esclusivamente mia. Solo più tardi, crescendo, mi resi conto che quel segreto non avrei mai potuto condividerlo con nessuno neppure volendo.
Non puoi capire cosa significhi rendersi conto di essere completamente sola, di non avere alcuna possibilità di comunicare agli altri un tuo desiderio, o anche solo i tuoi pensieri perché questo gli fa perdere la ragione per lo spavento. Quello che fino ad allora mi era sembrato normale, quella che era stata la mia infanzia felice, i miei giochi innocenti, si scontravano con l'incomprensione dei miei coetanei. Incomprensione che ben presto si trasformò in diffidenza, e poi sempre più velocemente in aperto ostracismo, se non in odio bestiale……-
Si alzò dal letto e cominciò a rivestirsi.
Enrico si stropicciò gli occhi e si tirò su a sedere. La voce di lei aveva cambiato repentinamente tono.
Non era la prima volta che Martina si immedesimava a tal punto in una fantasia da arrabbiarsi terribilmente, e di norma chi ci andava di mezzo era lui.
- A chi avrei potuto rivelare che mentre i miei compagni giocavano tra di loro per strada - continuò lei quasi gridando - io dietro la siepe in fondo all'orto conversavo con quegli esseri schifosi che uscivano dal buco tra le radici della vecchia quercia?
A chi avrei potuto insegnare le Parole che mi venivano in sogno di notte? Parole che possono legare la lingua o spezzare le mandibole, parole che possono far appassire i fiori, marcire le mele, inacidire l'olio, gesti che servono a far rallentare i battiti del cuore di un uomo, o a farti danzare a un ritmo forsennato una musica che nessuno può sentire, fino a sfiancarti come un cavallo impazzito!
Io non so il perché di quest'odio che mi consuma dall'interno e che non mi dà pace.....non so perché devo distruggere anche le cose che amo....... so soltanto che é così.
So che ogni volta mi é concesso troppo poco tempo per poter provare un'emozione, un sentimento. Sempre, nel momento peggiore, quello della passione più intensa, qualcosa o qualcuno mi tira un lembo dell'anima e mi risveglia dall'incanto, ricordandomi qual' é il mio compito. E allora tutto l'amore che provo si tramuta in furia, nel desiderio di vendicare qualcosa che ormai é troppo lontano nel tempo perché io lo possa ricordare, ma che dal passato urla e chiede vendetta.
Quante volte é già successo non te lo immagini………quale ragazzina non si é innamorata perdutamente di un compagno di giochi? Dell'amica del cuore con la quale si divide un sogno innocente o un dolce dolore?
La mia condizione mi ha negato qualsiasi sentimento puro, ho avuto in sorte unicamente la solitudine, e più i miei compagni diurni si allontanavano da me, più i miei incubi peggiori prendevano corpo, forma e i volti degli uomini e delle donne che incontravo il sabato notte in quella radura del bosco alla quale nessun essere ragionevole si sarebbe accostato neppure durante il giorno. Quello che so purtroppo l'ho imparato quasi tutto lì……
Io ho visto cose che nessun uomo potrebbe mai nemmeno immaginare. Esseri davanti ai quali la ragione umana vacillerebbe, riti e atrocità alle quali si può soltanto alludere e che talvolta vengono solo accennate nei racconti che i vecchi fanno davanti al fuoco la sera, ben sprangati in casa. Cose che per tua fortuna non sognerai mai, nemmeno nei tuoi incubi peggiori!-
Enrico era stupito. Seduto nel mezzo del letto la guardava a bocca aperta.
La fantasia della ragazza sembrava non avere limiti ed il racconto era interpretato così bene che gli aveva messo addosso una strana inquietudine. Considerò la possibilità che Martina soffrisse di qualche fenomeno di sdoppiamento della personalità, e si ripromise di parlarne con un medico.
- Va bene - le disse - ma adesso basta con queste fantasie, cerca di calmarti, sei sconvolta! Vuoi farti venire un accidente?-
Martina abbassò le spalle e lo guardò con aria rassegnata.
- Nemmeno tu. Mi ero illusa che potessi capire, speravo di potermi risparmiare questo dolore, almeno per una volta! Ma avrei dovuto sapere che naturalmente é tutto inutile.-
Scoppiò a piangere, di un pianto disperato, irrefrenabile, ed Enrico intenerito si alzò e le andò incontro per placare quella valanga di singhiozzi che la scuotevano tutta.
Non era preparato al colpo, così che quando aprì le braccia per stringerla a sé, ricevette la prima coltellata in pieno petto.
Il respiro gli uscì tutto d'un fiato e per un istante rimase immobile a guardare la lama infissa nella carne, ma lei non gli lasciò il tempo di comprendere. Gemendo, sfilò il pugnale e lo colpì di nuovo, trafiggendogli il collo di lato con una tale violenza che la lama spuntò dall'altra parte.
Enrico cadde all'indietro, riverso sul letto.
Dalla bocca gli uscì solo un gorgoglio strozzato, poi più nulla.
Martina, piangendo disperatamente, gli si inginocchiò accanto sulle lenzuola inzuppate di sangue e cominciò a recitare tra i singhiozzi la cantilena rituale. Le sue mani accarezzavano il viso con dolcezza, seguendone i lineamenti, poi infilò le unghie dei pollici negli incavi delle orbite, con un rapido movimento ne estrasse gli occhi e se li ficcò, attaccaticci e sanguinolenti, nel corsetto.
Adesso non piangeva più.
Sfilò lo stiletto sacrificale dal collo del suo amore, lo pulì sulle lenzuola e lo ripose nella sua custodia.
Infine alzò le braccia in alto, fece i segni che dovevano essere fatti recitando ad alta voce le Parole, e con un ultimo sguardo al corpo di Enrico svanì nell'aria.