martedì 24 dicembre 2013

Racconto di Natale

Natale è il periodo più fantastico dell'anno.
Se poi hai undici anni come Massimo e già ti immagini due intere settimane senza scuola, allora davvero il Natale ti brucia nelle mani e nelle gambe, ti entra nel naso con l'odore forte degli abeti tagliati di fresco, ritti come soldati sui marciapiedi, stretti forte l'uno all'altro come per riscaldarsi un pochino nell'aria gelida che sa di fumo, dove il respiro si condensa in un vapore impalpabile.
Il freddo forte taglia la faccia e fa lacrimare gli occhi, ma bisogna uscire di casa in questi giorni, bisogna star fuori, ci sono troppe cose da fare, da vedere e da ricordare: nuovi pastori da andare a comperare a S. Gregorio Armeno tra infinite bancarelle, le luminarie, gli zampognari che per strada suonano la novena davanti ai negozi, le vetrine scintillanti di via Scarlatti, i giocattolai che espongono enormi pupazzi di Lego e trenini elettrici in funzione,  le pasticcerie stracolme della migliore produzione di mostaccioli, pasta di mandorle, cassate siciliane, struffoli e panettoni, pandoro e pastiere.
Le salumerie hanno già esposto grandi mastelli nei quali galleggiano peperoni verdi da fare ripieni, e l'odore forte dell'aceto ti entra nel naso mentre tua madre compra olive, cipolline e alici per l'insalata di cavolfiore da preparare la sera della vigilia. Il pescivendolo ha messo fuori del negozio lunghe vasche azzurre illuminate da lampare, dove si contorce un groviglio sinuoso, nero e lucido, che quando il retino cala si dipana prendendo forma d'anguilla.­
Nel vento gelato che sa di neve c’è tutto questo e Massimo, scendendo di corsa le scale della funicolare, queste cose le sentiva tutte insieme, e se li beveva questi odori del Natale che gli entravano nella bocca, gli saturavano il naso, e le mucose delle sue narici gli comunicavano segnali confortanti, rassicuranti, sulle cose che sarebbero accadute in quei giorni, infondendogli fiducia, perché quando si è bambini ci sono cose che devono essere sempre le stesse perché fanno parte di noi, e il Natale è una di queste.
E in fondo, di cosa sono fatte queste feste se non di piccole cerimonie che si perpetuano nel tempo, a cominciare dalla preparazione dell'albero, con la meraviglia di riscoprire le decorazioni che messe via l'anno precedente adesso tornano fuori una alla volta, liberate dalla carta velina nella quale hanno dormito dodici mesi chiuse in vecchie cassette di liquore. E Massimo se le rammenta una per una quelle fragili bolle di vetro dalle forme bizzarre, e a lui tocca l'onore di mettere il puntale sulla cima dell'abete, come atto conclusivo di quell'ingenuo rituale.
Alcuni preparativi poi, iniziano parecchio tempo prima di dicembre.
Quando suo padre cominciava a costruire il presepe infatti, era forse ancora ottobre, e in una domenica di sole andavano sulla spiaggia a raccogliere la sabbia per fare le montagne, e poi in pineta a Castelvolturno a staccare da qualche albero la corteccia che sarebbe servita per simulare il basolato delle strade, muschio per la chioma degli alberi, pietrisco di varie dimensioni da passare al setaccio per i muretti e i viottoli tra i campi. Nella bottega di qualche ferramenta di paese comperavano una scopa di saggina dalla quale ricavare le sagome degli alberi scheletriti dall'inverno e nei giorni seguenti sarebbe stato tutto un martellare e un raspare, rete metallica e carta di giornale, e l'odore del Vinavil si sarebbe mescolato a quello del grano cotto nel latte, dell'acqua di millefiori, del cedro, dei mandarini freschi e dei meloni d'inverno.
Massimo passò correndo davanti alla bottega del barbiere e svoltando l'angolo di piazza Vanvitelli quasi si scontrò con Mario, vicino di pianerottolo e suo miglior amico. Avevano appuntamento per la prima delle numerose tombole che si sarebbero susseguite fino all'Epifania.
- Ehi, dove corri? - salutò Mario - siamo in anticipo!
- Lo so, - rispose Massimo - ma devo comprare una cosa.
- Un regalo?
- Macché... quello ce l'ho già, devo comprare un biglietto.
Si infilarono in una cartoleria e dopo una scelta meticolosa che occupò alcuni minuti, presero un bigliettino rosso con un nastrino dorato.
Già, perché nonostante tutto, questo Natale non sarebbe stato proprio come gli altri. Era il primo anno delle medie e senza che loro se ne accorgessero, senza che niente li avesse preavvisati, qualcosa in loro era cambiato.
Durante l'estate erano stati troppo occupati a correre, nuotare e andare in bici per rendersene conto, ma da settembre, al contatto con i nuovi compagni avevano avvertito un sottile cambiamento, e proprio il primo giorno di scuola, durante l'appello, quando il suo sguardo aveva incrociato quello di Federica, Massimo aveva percepito un frullo d'ali nello stomaco mai sentito fino ad allora, e al quale si rifiutava ostinatamente di dare un nome.
Ed era cominciato così una sorta di inseguimento, un gioco di segnali impercettibili che i due si lanciavano a distanza, senza avere il coraggio di avvicinarsi, e adesso....
Adesso Massimo camminava spedito con un pacchettino che nella tasca del giubbotto sembrava diventato enorme, e la sua attenzione era tutta concentrata su quello che sarebbe successo a casa di Luca quella sera.
- Che diavolo le posso dire?
- Tu non dirle niente, dalle il braccialetto e basta - suggerì pratico, Mario.
- Già, così quella capisce che é il solito regalo di Natale e buonanotte.
- Ma tu perché non glielo scrivi nel biglietto?
- Quanto sei furbo! E se il biglietto lo vede anche qualcun altro?
Il problema sembrava senza soluzioni.
Si fermarono davanti ad una vetrina che esponeva giochi per computer scambiandosi qualche parere, ma erano distratti, svogliati, in quel momento persino Natale sembrava più lontano e anche se sapevano che di lì a qualche giorno si sarebbero incontrati di mattina a casa dell'uno o dell'altro, ancora in pantofole, con la vestaglia indossata sul pigiama con i giochi nuovi tra le mani, anche se sarebbero andati insieme alla messa di mezzanotte, anche se avrebbero tossito insieme sul balcone in mezzo al fumo, tra girandole di fuoco, vulcani che eruttano lapilli, scoppi che scuotono i vetri e la terra, e avrebbero bevuto lo spumante ghiacciato nei bicchieri di cristallo buono, ora niente era più importante di una semplice frase, di poche parole da dire con voce incerta.
Ma viene sempre un momento in cui qualcosa si infila tra te e il resto delle cose, e cambia il tuo punto di vista così repentinamente che ti sembra che cominci una stagione diversa.
Si fermarono davanti al portone del palazzo di Luca.
- Siamo arrivati - sentenziò Mario - che vogliamo fare?
- Torniamocene a casa.
- Tu sei scemo, stasera c'è anche Valentina!
- Si..... ma che le dico?
- Che ne sai, può darsi che c’ha la febbre e non viene!
Salirono a piedi, lentamente, per concedersi ancora qualche istante per pensare a cosa dire, poi bussarono alla porta.
Venne ad aprire Luca, che nel salutarli fece l'occhietto a Massimo confermando: - Federica é già arrivata.
Massimo si sentì le gambe di cemento, non solo Federica era già lì, ma tutta la faccenda sembrava allegramente di dominio pubblico!
Sfilò il pacchetto dal giubbotto prima di appenderlo all'attaccapanni e se lo ficcò in tasca. Entrarono nella cucina per salutare la mamma di Luca, poi nella sala da pranzo dove in un angolo troneggiava un maestoso abete natalizio. Sul tavolo rettangolare che occupava quasi tutta la stanza c'erano già le cartelle della tombola e alcuni piattini pieni di fagioli secchi. Federica era seduta sul divano insieme a due compagne tra le più pettegole, che al loro ingresso si scambiarono uno sguardo d'intesa e scoppiarono a ridere. Massimo avrebbe voluto sprofondare nel pavimento, ma sentì che Mario lo spintonava e si accorse che Federica senza neppure guardarlo, si allontanava dal gruppetto uscendo da una porta laterale.
Salutarono le altre bambine e si sedettero. La scatolina del regalo faceva un bozzo sulla tasca troppo evidente e Massimo per prudenza si alzò, poi visto che Federica non rientrava e che gli altri erano occupati in conversazione, prese coraggio e si affacciò sulla porta laterale che dava nell'ingresso buio.
- Federica...? - azzardò - ... Federica... sei qui?
Non ebbe risposta ma gli sembrò di scorgere la sagoma della bambina accanto all'appendiabiti.
Avanzò esitante.
- Federica.... non provare a spaventarmi!
Ancora nessuna risposta, ma l'ombra più scura si mosse.
- Dove si accende la luce? - domandò Massimo.
- E che te ne importa? - rispose una voce dal buio.
Già - pensò lui - che me ne importa, mica ho paura!”
Fu in quel momento che si sentì tirare per un braccio nel più fitto dell'ombra e avvertì sul viso il solletico dei suoi capelli. Qualcosa di meravigliosamente morbido gli si poggiò per un istante sulle labbra e gli soffiò: - Buon natale, scemo!
Non seppe mai dire per quanto tempo rimase seduto al buio sulla panca dell'ingresso, con un pacchetto nelle mani e l'altro ancora nella tasca dei pantaloni.



giovedì 5 dicembre 2013

Figaro



Il giorno in cui Stefano trovò finalmente casa si aprì con un magnifico mattino di sole, dopo più di due mesi di un tempo freddo ed umido.
A quell'ora, su a San Martino, sembrava di essere in un'altra città.
L'aria era tiepida, ed il silenzio del quartiere, interrotto soltanto dal rumore delle rare auto che s’inerpicavano lungo la salita verso il piazzale di Castel Sant' Elmo.
Stefano uscì dalla stazioncina della Funicolare e sostò per un attimo sul marciapiede, il viso in pieno sole.
Aveva lasciato alcune centinaia di metri più in basso il fragoroso centro della città, rimbombante del suono dei clacson e delle voci dei venditori ambulanti, immerso nella perenne nebbiolina azzurrognola dei gas di scarico. Era lì che Stefano abitava da quando era bambino, ma a quella confusione non era mai riuscito ad abituarsi. Da qualche anno meditava di trasferirsi in una zona più tranquilla, e più di una volta aveva preso la direzione della collina, dove gli pareva che l'aria fosse più respirabile.
Attraversò la strada avviandosi all'appuntamento con l'impiegato dell'agenzia immobiliare che aveva da proporgli un appartamento.
Camminava contento, gli pareva che la giornata quasi primaverile, intrisa del cinguettìo degli uccelli, fosse di buon auspicio ed era certo che quella mattina avrebbe concluso una lunga ricerca. L'appartamento si trovava al terzo piano di uno stabile d'epoca, un vecchio ma decoroso palazzo nobiliare dotato di un pretenzioso androne, ed un cortile con una fontana mormorante.
L'impiegato dell'agenzia si sforzava di magnificarglielo, ma Stefano quasi non lo ascoltava perché già dall'ingresso aveva deciso che quella sarebbe stata casa sua. Gli era bastato entrare dalla porta per essere rapito dal panorama che si scorgeva dal balcone della prima camera. Uscì sul terrazzino inondato di luce e osservò la città sdraiata a cuocersi al sole, pigra e sonnecchiante. Il brusio del traffico lontano ricordava il ronfare di un felino soddisfatto.
La casa aveva altre due camere luminosissime dalle quali si godeva della stessa vista, più un cucinino minuscolo e il bagno. Non era in ottimo stato e quando l'incaricato gli precisò che avrebbe dovuto provvedere in proprio a qualsiasi lavoro di ripristino, Stefano ebbe un attimo d’esitazione, ma l'entusiasmo di quella mattina gli fece superare anche quel piccolo ostacolo e accettò.
Il venditore insisté per siglare l'accordo con un caffè e scesero in strada al bar sottostante. Stefano si era sbrigato molto prima di quanto pensasse e decise di fare un giro dell'isolato per cominciare ad impratichirsi del quartiere.
Nella piazzetta davanti alla Funicolare c'era una tabaccheria dove comprò le sigarette, e una serie di altri piccoli negozi. Passando davanti ad un barbiere, si specchiò nella vetrina rendendosi conto che era tempo di tagliarsi i capelli, e quale migliore occasione di quella, visto che probabilmente quello sarebbe diventato presto il suo "Figaro"?
Tra le poche convinzioni di Stefano c'era quella che un uomo non dovesse mai portare anelli, mai cambiare profumo e soprattutto mai cambiare barbiere, ma sapeva benissimo che un po' per pigrizia e un po' per non tornare al centro, in futuro avrebbe certamente mancato a quest'ultima regola.
La bottega aveva quell'aria assolutamente anonima che ha sempre questo tipo di negozio, ma il proprietario sembrava simpatico. Era un omone baffuto e cordiale che a dispetto della mole che lo avrebbe destinato con successo a lavori di gran fatica, si guadagnava da vivere con un mestiere delicato e quasi femmineo, tra lozioni, lavande e shampoo profumati. Fece accomodare Stefano su di una poltrona e dopo avergli posto le domande rituali circa il taglio desiderato, l’intovagliò per bene e si rimboccò le maniche del camice per lavargli i capelli.
Era un singolare contrasto vedere quegli avambracci pelosi terminare con delle mani enormi ma lisce e morbide, senza traccia di calli. Il barbiere si allontanò per andare a prendere il treppiede con il bacile e in quel momento entrarono altre due persone. La prima era un uomo anziano con un cappottone grigio, certamente un vecchio cliente, ma fu la seconda che catturò l'attenzione di Stefano.
Non aveva mai visto una rossa come quella.
Per un attimo pensò che potesse essere la figlia dell'altro, ma sentì che si rivolgeva al barbiere dicendo:
- Ettore, guarda un po' chi ti ho portato, il cavalier Riccardi!
Capì che si trattava della moglie del proprietario quando questi si affacciò dal retrobottega e salutando il nuovo arrivato, la pregò di occuparsi del suo shampoo. Solo allora ella sembrò accorgersi di lui e guardandolo riflesso nello specchio disse:
- Certamente, arrivo subito, il tempo di posare questi e di mettermi il camice.
Stefano si accorse che aveva alcune pacchi in mano e capì che la donna, lavorando in aiuto al marito, usciva per fare la spesa tra i negozi vicini. La seguì con lo sguardo mentre apriva la porta a soffietto ed entrava nello sgabuzzino, poi tornò ad incantarsi con l' effetto creato dagli specchi contrapposti delle due file di poltroncine.
Il gigante baffuto lo distrasse da quel gioco infantile chiedendo scusa se si occupava prima del cavaliere, e assicurando che sua moglie era molto più delicata di lui nel lavare i capelli. Stefano fece un cenno di comprensione e mentre il barbiere gli volgeva le spalle per servire l'altro cliente, tornò con lo sguardo nello specchio al punto nel quale sarebbe dovuta ricomparire la donna.
Il soffietto della porta non era completamente chiuso, rimaneva lo spazio di un palmo attraverso il quale si vedeva una lampadina accesa riflessa nello specchio del lavandino. Improvvisamente nel riquadro di luce comparve una spalla nuda sovrastata da una massa di capelli color rame. La donna evidentemente si era tolta l'abito per indossare il camice da lavoro e mentre armeggiava nell'angusto spazio dello stanzino Stefano riuscì a scorgere, riflesso nello specchio alla parete, il lato destro del suo viso, la linea delicata del collo e l'ampia curva del seno costretto in una coppa nera.
Leggermente a disagio, lanciò un'occhiata in direzione del marito che stava sforbiciando alle sue spalle, e quando si girò di nuovo, lei stava uscendo dallo sgabuzzino reggendo il treppiede per lo shampoo.
Gli sistemò l'aggeggio sotto la nuca e cominciò a miscelare l'acqua.
Stefano approfittò di quel momento per poterla osservare meglio.
Era il prototipo della donna desiderabile.
Il viso, bellissimo, era come circonfuso dai riflessi della lunga capigliatura, gli occhi verdi brillavano sotto le sopracciglia folte, la bocca aveva labbra carnose dagli angoli leggermente piegati verso il basso che le conferivano un aspetto avido, sensuale.
L'insieme gli ricordava l'immagine di una tigre di peluche dagli occhi di vetro, che aveva posseduto da bambino.
Portava un camice a quadratini rosa con un collettino bianco e una scollatura molto ampia che metteva in risalto la carnagione bianchissima, spruzzata da una miriade di lentiggini.
Si accorse di essere guardata con attenzione e gli sorrise con simpatia dicendo semplicemente:
- Io sono Valeria.
- Piacere - riuscì a rispondere Stefano a cui la lingua si era attaccata al palato.
Gli chiese ancora se la temperatura dell'acqua era giusta, poi gli bagnò i capelli.
Stefano aveva la testa completamente rovesciata all'indietro e da quella posizione poteva soltanto guardare il soffitto, o alzando ancora di più lo sguardo, incontrare quello di lei.
Decise di tenere gli occhi chiusi per evitare istanti d’imbarazzo, ma questo lo concentrò ancora di più sulla piacevole sensazione delle dita che gli massaggiavano ora la testa, ora la nuca, frugandogli tra i capelli e accarezzandolo dietro le orecchie. Gli pareva di avere il capo poggiato direttamente sul suo seno. Sentì un noto gonfiore premergli nei pantaloni e controllò che il lenzuolo lo coprisse fino alle ginocchia.
Quando lo shampoo finì, la signora Valeria gli avvolse la testa in un asciugamani e lui si tirò su a sedere strofinandosi i capelli. Lei non lo aiutò, ma avvisò il marito che poteva procedere con il taglio, poi sedette in una poltroncina di spalle alla sua a sfogliare una rivista.
Il signor Ettore fu rapido e preciso e con il ripetere meccanico dei gesti terminò in breve il suo lavoro. Durante tutto il tempo però, non disse una sola parola, soltanto ogni tanto gettava alla moglie sguardi che lei non ricambiò mai.
Stefano, mentre sedeva nel vagone della funicolare credette di aver capito che i due non andassero più d'accordo e si proiettò in mente un film a luci rosse a suo esclusivo beneficio.

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Nelle settimane successive, Stefano si organizzò per seguire da vicino l'impresa a cui aveva affidato i lavori di ripristino dell'appartamento.
Aveva preso l'abitudine di alzarsi molto presto e di salire a S. Martino con una delle prime corse della funicolare in maniera da arrivare al cantiere prima degli operai, e verificare i lavori del giorno precedente. Poi, dopo aver parlato con il capomastro, scendeva in strada e andava dal barbiere per farsi radere, o per meglio dire andava dal barbiere per guardare la signora Valeria mentre il marito gli faceva la barba.
Il rituale era lo stesso della prima volta, con la differenza che quando non c'erano altri clienti ed Ettore gli dedicava tutta la sua attenzione, gli riusciva alquanto difficile sbirciare il riflesso della porta socchiusa sentendo la lama del rasoio che gli accarezzava la gola.
Stefano non aveva ancora capito se la donna si fosse accorta della sua attenzione, ma tutto sommato gli bastava che la ignorasse il marito.
Ettore, dal canto suo, doveva essersi da qualche tempo abituato al pensiero che gli altri uomini guardassero la moglie immaginandola nuda, ma Stefano non comprendeva se l'apparente assenza di gelosia derivasse dalla certezza di un amore profondo o dalla mancanza totale d’interesse.
Fatto sta che la signora Valeria non dava mai adito a sospetti di alcun genere, e oltre a quella faccenda della porta a soffietto semiaperta, non concedeva mai ad alcuno sguardi o una parola che potesse essere male interpretata.
Stefano si era ormai rassegnato al fatto d’essere trasparente agli occhi di lei e si accontentava di quell'innocente strip-tease mattutino, che gli lasciava immaginare voluttà carnali irraggiungibili.
I lavori intanto procedevano, e un martedì che Stefano si era trattenuto a lungo a casa per definire alcuni particolari dell'impianto di riscaldamento, arrivò dal barbiere più tardi del solito. C'erano diversi clienti e la signora Valeria che si era già cambiata, sedeva in una delle poltroncine limandosi le unghie.
Ettore lo salutò cordialmente:
- Ingegnere, qui c'è un pochino da attendere, non è che voi dovete fare qualche altro servizio da queste parti?
- Veramente - rispose Stefano - io di solito a quest'ora prendo già la Funicolare, ma posso aspettare, vuol dire che mi leggerò il giornale.
- Venga, ingegnere - intervenne la signora Valeria chiudendo la sua rivista - approfitto per farle il manicure.
Stefano aveva sempre pensato che il manicure fosse una cosa da effeminati e stava per respingere l'invito, ma poi pensò che farsi accarezzare le mani dalla signora Valeria non doveva essere poi una sensazione tanto spiacevole.
Lei lo fece accomodare sulla poltroncina più in fondo al locale, come se quella pratica fosse un fatto intimo, da svolgere in disparte. Prese uno sgabello basso e sedette di fianco a lui aprendo un borsellino pieno di strumenti luccicanti.
- Come mai sei arrivato tardi? - chiese senza alzare lo sguardo.
Stefano non si aspettava una domanda così diretta, ma più che questa, fu che lei gli desse improvvisamente del tu ad imbarazzarlo.
- Dovevo sistemare la caldaia del riscaldamento.- farfugliò.
- Davvero?- ribatté lei guardandolo dritto negli occhi - anche noi abbiamo la caldaia dell'acqua che non funziona più bene, una volta o l'altra potresti darci un'occhiata. Ne capisci di caldaie, tu?
- Pochino... - mormorò Stefano, e deglutì a vuoto.
- Sta nello sgabuzzino. Quello con la porta che non chiude bene, per intenderci, non ci hai mai fatto caso?
Stefano si sentì morire dalla vergogna. Evidentemente Valeria aveva scoperto di essere spiata mentre si spogliava e adesso si sentiva in diritto di dargli del tu e di mortificarlo.
Gli aveva messo la mano dentro una vaschetta di plastica piena d’acqua tiepida e stava frugando tra limette e forbicine alla ricerca dello strumento migliore per torturarlo. Stefano guardò nello specchio il marito che sforbiciava poco lontano, ma gli sembrò che non si fosse accorto del loro colloquio. Lei gli prese la mano e cominciò a lavorare. Dalla posizione più alta Stefano poteva distinguere ciascuna delle lentiggini che le scurivano la pelle e che s’infittivano nel profondo solco tra i seni.
- Allora?- chiese lei ad alta voce - mi promette che ci darà un'occhiata?
- Certo - rispose Stefano che si era accorto di Ettore che veniva verso di loro.
- Va tutto bene? - domandò lui - ancora un po' di pazienza!
- Ho chiesto all'ingegnere di dare un'occhiata alla nostra caldaia, giacché se ne intende - disse Valeria.
Il marito la guardò fisso per un lungo momento.
- La nostra caldaia funziona benissimo - ruggì a denti stretti.
- Non è vero - rintuzzò lei con tono di sfida - sono sicura che ha qualcosa che non va!
Ettore quasi tremava mentre parlava con la moglie, e il suo sguardo sembrava volerla incenerire.
- Lo so io chi è che ha qualcosa che non va, qui! - mormorò allontanandosi.
A Stefano sembrò eccessiva una reazione tanto esagerata, a meno che quella conversazione non fosse una specie di codice tra i due e che le parole non sottintendessero tutt'altro. Per un attimo aveva temuto addirittura che l'uomo alzasse il rasoio che teneva nella destra verso la moglie.
Per di più aveva assistito al duetto con la mano tra quelle di lei e il suo disagio era al massimo.
Si mosse sulla poltrona.
- Stai fermo, che con questa ho quasi finito. Intanto tieni l'altra nella ciotola. - gli intimò Valeria.
Il grembiule rosa che portava, era leggermente stretto e formava tra bottone e bottone una serie di spazi nei quali Stefano intravedeva spicchi di rosea morbidezza. Quella donna lo eccitava in un modo che non aveva mai provato prima. Ora aveva preso un piccolo quadrato di cotone e dopo avergli asciugato le dita se lo mise in grembo poggiandoci sopra la sua mano.
- Dammi l'altra. - gli ordinò.
Stefano ubbidì docilmente e intanto guardava nello specchio il signor Ettore che lavorava alle sue spalle qualche poltrona più in là. Gli sembrò che fosse ancora arrabbiato per la faccenda di poco prima. Si muoveva più velocemente del solito, a scatti, quasi volesse terminare rapidamente con gli altri clienti per sottrarlo alle cure di sua moglie.
Adesso sentiva il tepore della coscia di lei attraverso il tessuto sottile dell’asciugamano, e mosse impercettibilmente le dita. Valeria non diede segno di essersene accorta. Continuava a scalzare pellicine e limare unghie. Lentamente, con il cuore in tumulto, Stefano mosse la mano fino ad infilare le dita nell'ansa tra due bottoni, avvertendo la consistenza serica delle calze di nylon, tese sulla carne. Accentuò la pressione e s’insinuò nello stretto spazio tra le sue gambe. I pantaloni gli scoppiavano e gli sembrava che anche lei respirasse più velocemente, ma quando tentò di muovere la mano verso l'alto, Valeria strinse le cosce imprigionandogli le dita e impedendo qualsiasi altro movimento.
Alzò il viso verso di lui guardandolo dritto negli occhi.
- Io qui ho finito - disse - e tu?
Stefano ritirò lentamente la mano e si asciugò l'altra.
- Ma tu, - chiese sottovoce - che cosa vuoi da me?
- Niente, solo uno sguardo alla caldaia - rispose lei, e rivolta al marito: - Ettore, l'ingegnere è tutto per te!
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Dopo quella volta Stefano, che si sentiva comprensibilmente confuso, evitò di passare dal barbiere per qualche giorno.
L'impressione iniziale che in quei due ci fosse qualcosa di strano sembrava confermata dal battibecco cui aveva assistito, e non aveva nessuna intenzione di finire affettato a rasoiate da quell'energumeno, nemmeno per i begli occhi di madama Valeria. Dal tipo di reazione del signor Ettore, si sarebbe detto che la caldaia del negozio si rompeva spesso…., e d'altro canto non riusciva a capire perché Valeria, invece di proporgli un incontro altrove, avesse provocato il marito con quella storia.
Ma poi si convinse che tutto sommato non aveva niente da temere, che avrebbe potuto tirarsi indietro in qualsiasi momento, e comunque si trovò tutta una serie di buone scuse che gli agevolarono la strada verso la bottega del barbiere.
Quando, di mattina presto, entrò di nuovo nel negozio, gli parve che il signor Ettore fosse sorpreso. Se non fosse stato così, infatti, almeno gli avrebbe chiesto come mai era mancato per alcuni giorni, invece si limitò a salutarlo freddamente, invitandolo a sedersi.
- Forse - pensò Stefano - era così convinto di non vedermi più che non sa neppure lui cosa dirmi.
Come al solito, era il primo cliente della giornata, e mentre Ettore gli stava ancora insaponando il viso, con un incedere da leopardo fece il suo ingresso la signora Valeria.
- Ingegnere! - cinguettò appena lo vide - Da quanti giorni non la si vedeva! Ci è mancato molto sa?
Ettore senza guardarla affilava il rasoio sulla correggia.
- Oggi deve assolutamente dare uno sguardo alla caldaia - proseguì lei - altrimenti rischierà di fare lo shampoo con l'acqua gelida - e si diresse verso lo sgabuzzino.
Alle parole della moglie il barbiere si era bloccato, come se qualcuno gli avesse calato una bastonata sulla nuca. Poi voltandosi verso Stefano disse con tono quasi implorante:
- La prego ingegnere, non si disturbi, la nostra caldaia funziona benissimo!
Stefano lo guardò perplesso, senza rispondergli. Non capiva cosa stesse succedendo, ma si sentiva preso in un gioco dal quale non sapeva venire fuori.
Ettore cominciò a raderlo con attenzione, in silenzio.
La porta a soffietto semiaperta si rifletteva nello specchio, e nel riquadro ancora una volta comparve la spalla nuda di Valeria. Stefano la fissava incantato, ma questa volta vide distintamente l'indice di lei infilarsi sotto la spallina del reggiseno, facendola scivolare lungo il braccio.
Il rasoio gli graffiava la pelle sotto il collo e lui distolse lo sguardo per osservare il viso di Ettore. L'uomo sembrava concentratissimo sul suo lavoro, - Anche troppo per un'operazione così consueta - pensò Stefano - ma forse preferisce non guardare.
Intanto la donna ancora non usciva e lui tornò a spiare la porta dello stanzino. Vedeva lo specchio appeso alla parete, e sull’attaccapanni a muro il reggiseno che Valeria aveva sfilato, poi di nuovo la sua spalla che si abbassava in avanti, come se si stesse chinando verso terra. Quando si rialzò, la mano reggeva un paio di mutandine nere che furono collocate sul gancio insieme al reggipetto e coperte con un camice.
Il cuore di Stefano pompava a più non posso, sentiva lo stomaco annodato e un’ondata di calore che gli saliva alla testa. Accennò un sorriso tirato al signor Ettore, quasi a proclamare la propria innocenza, ma questo stava rifinendo la sua opera e sembrò non accorgersene nemmeno.
In quel momento entrò nel negozio il cavalier Riccardi che fu accolto da Valeria, uscita alla luce mentre ancora si abbottonava la divisa.
Stefano non respirava, il pensiero che sotto il camice rosa lei fosse completamente nuda lo faceva star male dal desiderio.
Ettore era scuro in viso, gli spruzzò un po' di dopobarba e rimase in attesa che pagasse e salutasse, come al solito.
La moglie intervenne:
- Ettore, comincia pure col cavaliere, al signor Stefano penso io.
Era la prima volta che lo chiamava per nome davanti al marito, e Stefano notò il piccolo gesto di rabbia impotente quando passandole accanto, il signor Ettore la guardò, stringendo i pugni.
Tirò fuori il portafogli e prese una banconota, quando lei lo rimproverò:
- Ingegnere, se ne stava dimenticando, aveva promesso di farmi quel servizio!
- Ah, .... è vero - si scusò lui - ...me n'ero scordato!
Ettore non li degnò di uno sguardo, mentre la moglie si avviava verso il retro, solo disse con tono di rimprovero:
- Valeria! - che in altra circostanza avrebbe potuto significare "non approfittare così della gentilezza di un cliente", ma in quel momento sembrò avere una chiara venatura di minaccia.
La donna non dette segno di aver sentito e s’infilò tranquillamente nello sgabuzzino. Stefano invece esitò un attimo, e di nuovo colse uno sguardo quasi implorante del marito, che gli chiedeva in quel modo di non entrare lì dentro.
Stefano alzò le spalle come a dire "che ci vuol fare, quando le donne si mettono in testa una cosa...", poi fece altri pochi passi e varcò la soglia della stanzetta.
Valeria era appoggiata con le reni al lavandino, le mani sul bordo, e teneva le gambe leggermente divaricate. Aveva il camice aperto abbassato intorno alle spalle e le punte brune dei seni svettavano tra i bottoni. Quando lo vide entrare incassò la testa nelle spalle, come un gatto che si prepari a saltare e sibilò tra i denti:
- Dove cazzo sei stato in questi giorni?
Stefano rimase di sasso. Nonostante quello che aveva visto nello specchio, si aspettava un bacio, magari qualche toccatina, ma non era preparato al fatto che lei volesse scoparselo lì dentro, con il marito di fuori.
Per di più in quel momento sentì un nuovo richiamo di Ettore alla moglie.
Balbettò qualcosa, mentre lei lo afferrava per un braccio, attirandolo a sé.
Il profumo della sua pelle gli andava dritto al cervello, ma mentre stava chinandosi per baciarla, da un punto molto vicino alla porta dello sgabuzzino Ettore urlò il nome di Valeria.
Stefano si liberò della stretta e aprì la porta a soffietto.
Fuori, a qualche passo da lui il barbiere lo fissava stravolto, mentre il cavalier Riccardi, con la faccia insaponata osservava meravigliato la scena.
L'uomo gli tese la sinistra con il palmo aperto verso l'alto, come se volesse mostrargli qualcosa che aveva in mano, poi con un movimento deciso, ci poggiò sopra la lama del rasoio e l'affondò.
Stefano, attonito, guardava come ipnotizzato la carne che si apriva sotto la pressione dell'acciaio e il sangue che ne scorreva a macchiare il pavimento.
Fu il grido del cavalier Riccardi a svegliarlo da quella trance, subito afferrò il polso del signor Ettore che lasciò cadere il rasoio, e cercò con lo sguardo qualcosa che potesse fermare l'emorragia.
Dallo stanzino alle sue spalle non proveniva alcun suono.
Il barbiere crollò su una poltroncina come un mucchio di vestiti vuoto, e lasciò che Stefano gli avvolgesse la mano in un tovagliolo, che subito s’inzuppò di sangue. Il cavalier Riccardi dalla soglia del negozio chiedeva aiuto a gran voce, e in un attimo il locale si riempì di gente.
Stefano approfittò di quel momento per uscire in strada ed allontanarsi, sconvolto. In funicolare tentò di coprire gli schizzi di sangue che gli arrossavano i pantaloni con le pagine di una rivista, e si rese conto che le mani gli tremavano.
Percorse la notte dal letto alla poltrona, dal balconcino alla cucina, ma al mattino la decisione era presa.
Chiamò l'impresa che stava eseguendo il ripristino del nuovo appartamento e pregò di interrompere il lavoro, perché per motivi personali era costretto a vendere la casa immediatamente, nelle condizioni in cui si trovava.
Con la telefonata successiva affidò quest'incarico alla prima agenzia immobiliare che trovò sulle Pagine Gialle. Per il sopralluogo potevano rivolgersi al portiere del palazzo, che aveva le chiavi.
No, lui non era in condizione di accompagnarli.
Soffriva di claustrofobia, e per niente al mondo avrebbe preso la funicolare che porta a San Martino. 



Gustav Klimt "Danae" 




domenica 10 novembre 2013

Chiavi

Ovviamente ho una chiave per la porta di casa.
Una per il portone.
Una per la cantinola.
Una per il garage.
Una per il portoncino che immette nel garage.
E un telecomando per la porta basculante.
E una chiave per il cancello di fuori.
Con un telecomando.
E una chiave per il cancelletto pedonale.
E una per la cassetta delle lettere.
Naturalmente ho una chiave per l'automobile.
Una del bloccasterzo.
E una per il portone dei miei.
Una del cancello del loro cortile.
Con il relativo telecomando.
Le chiavi di casa loro.
E la chiave del portoncino che dà nel cortile.
Un telecomando per la sbarra sotto casa di Massimo.
E anche le chiavi di casa sua per qualsiasi evenienza.
In auto tengo anche il telecomando del cortile di Luciano, per trovare posto quando ci vado.
Un'altra chiave mi serve per il cancello di quello dell'ufficio, dove metto l'auto.
E una per la porta dell'ufficio.
Ho una copia di molte di queste chiavi che conservo in un cassetto con dei bigliettini che servono a farmele riconoscere.
Ho anche un barattolo di vetro pieno di chiavi che non so di cosa sono, ma che non ho il coraggio di buttare via.
L'altro ieri sera sono uscito per andare a prendere Anna a casa di un'amica.
Chiudere la porta di casa e realizzare che avevo lasciato le chiavi sul mobile dell'ingresso è stato un attimo.
L'attimo nel quale ti rendi conto che hai fatto una mossa sbagliata e non puoi più rimediare.
E' quel momento quando capisci che hai detto “filglio di puttana” a uno che lo è davvero, è più grosso di te, e fa parte del Clan dei Casalesi.
E dall'auto non scende da solo, scendono in quattro.
Tornando ad Anna, naturalmente lei non si era portata la borsa con le sue copie.
Dico “naturalmente” perchè quando il Dio delle Cose decide che ti deve fare incazzare, si organizza bene.
Ma tu no.
Hai con te le chiavi della macchina piccola, e vai a casa dei tuoi dove ti sembra di ricordare che una volta, in un accesso di buonsenso, hai lasciato una copia delle chiavi da casa tua perchè non si può mai sapere.
Arrivi a casa loro, ma non hai le chiavi né del portone, né di casa, nè del cancello grande del cortile, nè del portoncino che dà nel palazzo.
Tuo padre alle undici di sera ha la buona abitudine di mettere le cuffie per ascoltare la tv senza svegliare tua madre.
E non sente il citofono.
Ma tu hai il cellulare e alla fine riesci a farti aprire.
Le copia delle chiavi che ricordavi di aver lasciato a casa loro c'è, ma è della vecchia serratura che hai fatto cambiare l'anno scorso.
A questo punto non sei nemmeno più incazzato.
Sei rassegnato.
Anna per fortuna è più lucida di te, e si ricorda che la signora delle pulizie ha una copia delle chiavi, che utilizza per entrare quando non siete in casa.
Ma la signora non risponde al telefono di casa e non è raggiungibile al cellulare.
Però sappiamo dove abita.
Ci andiamo e aspettiamo in auto che torni dalla cena in pizzeria.
E così finalmente possiamo rientrare in casa.

Mi ricordo che in vacanza a Spello in Umbria, ma anche in Lucania, o ad Alberobello, notai che i portoncini dei palazzi avevano un foro, e che da questo a volte fuoriusciva una cordicella.
Mi spiegarono che la persona che usciva, prima di chiudere il portone, infilava nel foro la cordicella che era legata al catenaccio, facendola penzolare al di fuori.
Così non era costretto a portarsi dietro le chiavi.
Semplice no?

G.





giovedì 7 novembre 2013

Elogio del treno


Adriano controllò per l'ennesima volta che la porta del suo scompartimento fosse ben chiusa, o come diceva la scritta: " bien fermé, shut, zu ".
Non che avesse timore di essere derubato, ma sempre, quando si trovava in un luogo che non gli fosse completamente familiare, ci teneva ad eseguire minuziosamente tutte le istruzioni che riusciva a leggere, quasi si sentisse osservato e giudicato da un occhio nascosto.
Soddisfatto dell'esame della serratura si sedette sul letto e aperta la valigia ne tirò fuori il pigiama cominciando a svestirsi.
Aveva aspettato che il treno si mettesse in movimento per celebrare il rituale serale: andare al gabinetto, chiedere al controllore una bottiglia d’acqua minerale e la sveglia per l'indomani con un caffè bollente, un'ora prima dell'arrivo in stazione.
Adesso, mentre si infilava tra le lenzuola fresche di bucato, considerava l'aspetto consueto e confortevole della carrozza letto.
Nell'entrare, sul cuscino aveva trovato un candido, minuscolo asciugamani che aveva diligentemente riposto nel vano ricavato dietro lo specchio orientabile, accanto alla bottiglia dell'acqua e ai bicchieri con il simbolo delle ferrovie. In effetti quasi tutto intorno a lui portava il marchio dell'Ente Ferroviario: le grucce alle quali aveva appeso i suoi abiti, il posacenere retrattile, le microscopiche saponette poggiate sul bordo del lavabo a scomparsa e persino l'orrendo orinale di ceramica nascosto dietro un piccolo sportello, sotto il lavandino!
Lo specchio fisso aveva una luce incorporata, di modesta utilità nel radersi, ma forse comoda per il trucco delle signore.
Del resto la cabina aveva una buona illuminazione: luce giorno, luce notte, e sulla testata del letto una lampadina ad intensità variabile per poter leggere più agevolmente.
Completavano il quadro comandi di quel temporaneo abitacolo, un pulsante dalla scritta altisonante "per la chiamata del personale di vettura" e su su, in alto, la rossa e tentatrice maniglia del freno di emergenza.
Attaccato alla lampada da lettura, quasi dietro al suo orecchio sinistro, c'era un minuscolo cuscinetto di velluto verde con un gancetto in cima, dove Adriano appese il suo orologio, affinché gli ondeggiamenti del vagone non lo facessero battere contro la parete.
Il ritmico rollio della cabina cominciò ad assopirlo, come quando da bambino si addormentava sul fondo della barca di suo padre, cullato dallo sciabordio dell'acqua.
Notò la scritta sul finestrino di fronte a lui che raccomandava ai passeggeri di non gettare fuori alcun oggetto, e sorrise ricordando di aver visto nello scompartimento di un vecchio trenino a gasolio l'oscena targhetta "VIETATO SPUTARE PER TERRA", che sottintendeva altresì la liceità di sputare da qualunque altra parte.
Ma in quell'atmosfera così confortevole, quasi domestica, tutte quelle raccomandazioni incollate sulle pareti avevano il tono di consigli, di inviti gentili ad un comportamento civile, che però non suggerivano un contenuto minaccioso.
Come gli erano sembrate diverse le grandi scritte lampeggianti lette quella volta in aereo, imperiose e gravide di implicazioni pericolose!
Intendiamoci, non é che Adriano avesse paura.
La sua titubanza riguardo agli aerei e in generale alla possibilità di volare si poteva ascrivere ad una sola esperienza che peraltro non era andata poi troppo male.
Quello che lo sosteneva nella sua presa di posizione sul volo, era un semplicissimo ragionamento, anzi, la più semplice delle intuizioni che avevano accompagnato la gran parte della umanità fin dal suo primo apparire su questo pianeta: è impossibile che qualsiasi oggetto più pesante dell'aria possa sostenervisi senza prima o poi dover rispettare la legge di gravità, tornando più o meno violentemente a terra.
Questo in sostanza era quello che si era ripetuto durante tutta la notte precedente il suo primo ed unico volo, ed in effetti, la mattina successiva era così convinto dell'evidenza di quella verità, che cercò in tutti i modi di persuadere sua moglie che tutto sommato non era affatto necessario un rientro così frettoloso e che potevano benissimo fare ancora un tentativo di trovare un treno e poi un traghetto e ancora un altro treno per poter tornare "comodamente" a casa. Lei lo guardò come si guarda uno che avendo la febbre a quaranta, farnetichi parole insensate, e senza prendersi il disturbo di ribattere continuò a tentare di chiudere la valigia.
Il fatto che non si prendesse minimamente in considerazione la sua proposta lo fece desistere dal tentativo di argomentarla in qualche modo e lo convinse della esistenza di una Volontà Superiore che aveva deciso che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno. Ciò nonostante preparò il suo bagaglio e i documenti con meticolosità, perché non voleva che in seguito uno stupido funzionario di polizia avesse potuto criticare il disordine con il quale i passeggeri preparavano valigie ed effetti personali che aumentava la confusione dei resti e impediva il riconoscimento delle salme.
Lo stato di trance in cui era caduto durò per tutto il tragitto dall'albergo all'aeroporto, con sua moglie che lo strattonava e lo spingeva e lui che come un automa eseguiva goffamente anche i gesti più semplici.
L'ipnosi si ruppe solo dopo che ebbe attraversato la rugosa proboscide che lo sputò al suo posto nella carlinga dell'aeroplano. Guardandosi intorno cominciò a rendersi conto dell'atmosfera assolutamente serena e rilassata con cui gli altri passeggeri, in maggioranza turisti, cercavano il loro posto e conversavano e scherzavano. Nessuno di loro sembrava preoccupato della disgrazia imminente.
Sua moglie, che naturalmente si era accorta di quella tensione, cercava insistentemente di indurlo a razionalizzare la paura, con l'unico risultato di irritarlo e agitarlo ancora di più. Allacciò comunque la cintura di sicurezza obbedendo all'ordine impartito dalla scritta luminosa che campeggiava sulla porta di passaggio alla cabina dei piloti, e cercò di calmarsi.
Gli venne in mente che quando aspettavano il loro primo bambino, aiutava sua moglie in una serie di esercizi di respirazione che dovevano servire a rilassarla al momento del parto. Tentò allora di controllare il respiro inspirando profondamente ed espirando con lentezza dopo un attimo di pausa.
La cosa sembrò calmarlo un tantino, ma mentre cominciava a riprendere fiducia nelle teorie di quel brav'uomo di Leonardo da Vinci, la voce del comandante lo fece sussultare.
Che la compagnia di volo fosse felice di averlo a bordo se lo era immaginato, visto il costo del biglietto, ma che il comandante in persona facesse pubblicità ad una multinazionale che produce sigarette e addirittura suggerisse di acquistare cioccolato e profumi al duty free gli sembrò per la verità, molto poco professionale. Non ebbe il tempo di soffermarsi sull'ipotesi di avere un bottegaio come pilota, perché senza che nessuno lo avesse avvisato, l'aereo incominciò a muoversi.
Solo allora si rese conto che gli addetti avevano già chiuso i portelli facendolo prigioniero in quell'angusto tubo di acciaio dal quale non poteva più fuggire. La scritta "VIETATO FUMARE" che si accese accanto alla prima, gli parve totalmente superflua giacché non immaginava qualcuno che potesse aver voglia di fumare in quel momento.
In effetti, Adriano si accorse che i passeggeri avevano smesso di chiacchierare e, chi più chi meno, cercavano di dissimulare in altre piccole attività silenziose una certa ansia che pure dovevano avere e che fino a quel momento avevano subdolamente nascosto solo per farlo sentire ancora più a disagio. L'aereo intanto procedeva speditamente verso la pista di decollo al limite della quale si fermò in attesa dell' OK della torre di controllo.
" Ci siamo " pensò, rendendosi conto che quello era il momento che tutti inconsapevolmente aspettavano.
Chiuse gli occhi quando i motori salirono di giri lentamente, finché il rombo diventò un urlo e l'aereo con un morbido balzo si lanciò in avanti. Sentiva le vibrazioni dei possenti reattori percorrere tutta la struttura del velivolo e salirgli per le vertebre della spina dorsale, su, su per la scatola cranica fino a fargli tremare i denti.
S’irrigidì, teso contro lo schienale del sedile, le mani aggrappate ai braccioli in attesa dell'impennata finale, ma quando spalancò gli occhi correvano ancora sulla pista ad una velocità ormai folle e in quell'attimo Adriano ebbe la certezza che quel mostro così pesante non sarebbe mai riuscito ad alzarsi in volo perché l'immensità di quella massa di metallo non avrebbe mai potuto reggersi nel vuoto.
Ma in quel momento, con i motori che gemevano sotto la spinta di un’energia bestiale, il muso del velivolo si alzò prepotentemente verso l'alto e l'aereo si staccò da terra.
La forza di gravità lo schiacciò contro lo schienale e si sentì mancare. Richiuse gli occhi sforzandosi di non svenire.
Capì di essersi iperventilato e che gli esercizi di rilassamento erano serviti solo ad ubriacarlo d’ossigeno. Smise di respirare accorgendosi che le sue pelvi stavano spingendo in avanti premendo contro il sedile, come se sentissero l'immenso sforzo di arrampicarsi nel nulla e volessero aiutare l'aeroplano a salire sempre più su. Riaprì gli occhi. L'aereo sembrava immobile, fermo nel vuoto come in stallo, ma dopo un interminabile secondo rialzò la pesantissima coda e si appoggiò sull'aria che incredibilmente lo sostenne.
Un campanello lo avvisò che il peggio era passato e che ora poteva slacciare la cintura di sicurezza. 
La testa gli girava ancora, ma ebbe la capacità di voltarsi e rispondere con un debole sorriso alle parole di sua moglie.
Il resto del viaggio continuò senza eccessivi problemi, con i passeggeri che bivaccavano come in una allegra gita in torpedone, incuranti della propria incolumità e Adriano che se ne stette immobile, teso ad ogni minima variazione di assetto, ad ogni vibrazione o rumore nuovo che subito confrontava con quelli precedenti per cercare d'intuire quali cambiamenti erano intervenute alla normalità del volo. Faceva corpo con l'aereo, gli sembrava d’essere tutt'uno con la fusoliera, avvertiva ogni minimo vuoto d'aria, ogni piccolissimo scivolamento d'ala, ogni impercettibile mutamento di rotta.
Infine, come Dio volle, arrivarono in prossimità di Fiumicino e la vista delle case e del terreno gli infuse nuovo coraggio. Aveva letto da qualche parte che i momenti più pericolosi di un volo sono la partenza e l'atterraggio, ma la vicinanza dell'aeroporto gli fece dimenticare tutti i suoi timori, anzi per la verità lo rinvigorì non poco.
Scendevano rapidamente, immersi nella luce di un sole familiare, nulla gli sarebbe ormai potuto accadere, non a pochi minuti da casa sua.
L'aria esterna gli apparve visibilmente più tiepida del gelo rarefatto che avevano incontrato in quota, gli sembrava di sentirla scorrere sulle ali riscaldandole, allora distese le gambe spingendo fuori il carrello d’atterraggio, si rilassò contro il sedile avvertendo che il regime dei motori scendeva di giri e si preparò alla tanto attesa sensazione di poggiare il culo sulla pista, finalmente in salvo.
Quando le ruote toccarono con gran rumore il cemento, tirò un sospiro di sollievo e smise di pregare, ringraziando tutti gli Dei della collaborazione prestata, e nel sentire il pilota che si augurava di riaverli a bordo del suo aereo, riuscì persino a sorridere, facendo mentalmente un gesto osceno.
Da quel giorno non aveva mai più preso un aereo, anzi aveva verificato, andando in aeroporto per ricevere o accompagnare qualche amico, che soltanto l'odore del kerosene o il rombo dei reattori dei velivoli che si spostavano sulle piste, bastavano a dargli la tachicardia.
Per i sui brevi spostamenti di lavoro usava l'automobile e per i viaggi più lunghi il treno, che rimaneva il suo mezzo di trasporto preferito.
Ogni volta che parlava con qualcuno che esaltava le qualità infinite dell'aeroplano, si chiedeva che vantaggio ci fosse nell'alzarsi alle sei di mattina, per essere in aeroporto alle sette, fare il check-in e decollare alle otto per essere a Milano alle nove, quando lui otteneva lo stesso risultato prendendo un comodissimo vagone letto che partiva alle dieci di sera dalla stazione e alle otto arrivava riposato, fresco e sbarbato al pari di tutti quei frenetici aviatori.
"L'uomo - pensava Adriano - dovrebbe seguire ritmi più naturali, calibrati sulla lunghezza del suo passo, sulla durata della sua giornata, e non costringere il tempo a ripiegarsi su se stesso, compresso nelle turbine di motori sempre più potenti. Da sempre abbiamo imparato a misurare lo spazio con il tempo, la lontananza con l'attesa, invece lo stramaledetto aereo, al contrario, ti fa perdere la cognizione della distanza, non hai più la coscienza del tragitto, del percorso che occorre fare per andare da un posto all'altro. Ti convinci che Parigi sia lontana due ore e Londra tre, ma non è vero, è una finzione della nostra mente che semplifica una realtà infinitamente complessa fatta di campagne, fiumi, città, montagne possenti da superare, mari da navigare, luoghi da attraversare.
Ed era in quella multiforme oscurità che il suo treno sfrecciava adesso, ondeggiando, sobbalzando nel buio e gridando a tutta la campagna del suo imminente arrivo.
Adriano spense la luce e si addormentò sereno, pensando che di treni dirottati da terroristi non se n'era ancora mai sentito parlare.
§§§§§§§§§§§§§§§

Non capì che cosa lo avesse svegliato, ma sicuramente doveva essere ancora notte fonda. Allungò una mano sopra la testa e cercò tentoni il pulsante che accendeva la luce notturna.
Guardò l'orologio: le due e quaranta.
A quell'ora l'alba non sembra più di una promessa, lontana e inconsistente. Aveva l'impressione che durante il sonno qualcosa intorno a lui si fosse modificata, come se gli abiti o la valigia o la bottiglia dell'acqua minerale si fossero mosse da sole, cambiando la loro misera condizione di oggetti inanimati.
Si scosse con un brivido da quella ridicola riflessione e controllò che la porta dello scompartimento fosse ben chiusa.
Aveva un po' freddo adesso. Girò la manopola dell'aria condizionata, si rinfilò nel letto e spense la luce.
Chiuse gli occhi, ma li riaprì quasi subito perché cominciava ad avere la strana sensazione che nella cabina non fosse completamente solo.
Restò allora con gli occhi sbarrati nel buio, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi suono che non fosse il rumore regolare degli scambi e delle giunzioni dei binari, o il cigolio delle strutture del vagone quando il treno affrontava una curva. Nella solitudine notturna, qualsiasi sensazione, qualsiasi pensiero sembrava amplificarsi, dilatarsi fino a raggiungere i confini della ragione. Ebbe un tuffo al cuore quando un treno che sfrecciava nell'altro senso fece vibrare il finestrino, dandogli l' impressione che avessero urtato un solido muro d'aria.
Una fermata.
Sarà un semaforo o una stazione? Un guasto o manca il prossimo ponte trascinato via dalla piena del fiume?
Accese la luce da lettura nella speranza di rilassarsi un poco sfogliando qualcuna di quelle pubblicazioni graziosamente inutili di cui sono piene le cabine letto, ma la reticella accanto all'orologio era vuota.
Il fondo della cuccetta superiore era un’orrenda stampa ottocentesca di Napoli vista dalla Riviera di Chiaia, che lo incoraggiò a chiudere gli occhi nel tentativo di riprendere sonno.
Nuovamente spense la lampadina.
Nel buio lentamente cominciò a distinguere brani di conversazione che giungevano ovattati dallo scompartimento vicino attraverso la parete di separazione e ad un certo momento avvertì come un rumore di piccoli passi nel corridoio, attutiti dal tappeto ma che mostravano chiaramente un'incertezza, un'esitazione su dove andare. Trattenne il fiato quando si accorse che il passeggiatore notturno si fermava proprio davanti alla sua porta, e rimase in attesa del gesto che conduceva alla maniglia.
Ma il ladro, se di ladro si trattava, era evidentemente indeciso sulla scelta della sua vittima e Adriano non avvertì alcuna pressione sul battente.
Allora si decise, accese la luce e contemporaneamente diede grandi colpi di tosse per rendere palese la sua insonnia e mettere in guardia lo sconosciuto ché desistesse dall'ingenuo tentativo di sorprenderlo nell'incoscienza. Ma non ci fu il rumore di passi in fuga che lui aveva previsto, né alcun suono che indicasse la presenza di qualcuno davanti al suo scompartimento.
Adriano, preso coraggio, si alzò e aprì di scatto la porta. Nessuno.
Nessuno nel corridoio e neanche nel gabinetto, visto che le lucine di cortesia erano spente. Il vagone si presentava esattamente come avrebbe dovuto essere a quell'ora di notte: deserto.
Perplesso, stava per richiudere la porta quando la sua attenzione fu richiamata dal suono delle voci della cabina accanto. Una era una voce doppia, sicuramente maschile, l'altra una vocina stridula che si sarebbe detto appartenere più ad una bambina che ad una donna, ma che aveva un tono lamentoso, quasi cantilenante, come di un idiota che ripeta stolidamente la stessa frase senza senso con la caparbietà del demente.
La voce grossa sembrava irritata, ma per quanto si sforzasse, Adriano non riusciva a capire che cosa stessero dicendo. Fece per accostarsi di più alla porta, ma al primo passo che azzardò sulla moquette del corridoio finì con il piede nudo su una macchia scura e attaccaticcia.
Si ritrasse a sedere sul suo letto bestemmiando e trovato uno dei piccoli asciugamani tentò di ripulirsi da quella schifezza. Sembrava una sorta di muco che puzzava fortemente di grasso bruciato.
Una frenata improvvisa del treno chiuse violentemente la porta e Adriano ci mise la sicura. Per togliere di mezzo quell'odore nauseabondo gettò l'asciugamano sporco nello sportellino con l'orinale e intanto si chiedeva che cosa potesse essere quella mucillagine che insozzava il corridoio proprio e solo davanti al suo scompartimento, visto che quando era salito sicuramente non c'era, altrimenti lui non avrebbe potuto mancare di finirci dentro.
Accorgendosi di essere completamente gelato, accese il riscaldamento e s’infilò di nuovo sotto le coperte cercando di riprendere un po' di calore. Esitò per un attimo con la mano accanto all'interruttore, perché la sensazione di una presenza dentro la cabina non lo aveva lasciato e non se la sentiva di spegnere la luce. Optò per la penombra azzurrognola della lampadina notturna, ma era troppo agitato per riprendere sonno.
Come se non bastasse, il duetto di voci della cabina accanto era aumentato di intensità. La voce che sembrava maschile adesso gridava quasi mentre quella più sottile ansimava in un frenetico balbettio indistinto.
Adriano stava considerando l'opportunità di premere il campanello per chiamare il controllore, quando il treno s’imbucò dentro a una galleria e il rumore improvviso gli causò uno spavento che lo tirò su a sedere nel letto. Gli si erano tappate le orecchie, e per quanto deglutisse, non si sturavano. Fu allora che avvertì alcuni colpi sordi battuti contro la separazione tra i due scompartimenti e un gorgoglio strozzato che gli fece accapponare la pelle. Sembrava provenire dall'angolo buio della sua cabina, accanto alla porta.
La mano di Adriano volò agli interruttori, e con una sola mossa accese la luce e premette il pulsante di chiamata. Guardò inorridito nell'angolo che gemeva, ma non c'era nulla che potesse produrre quel suono. Allora si alzò dal letto e accostò l'orecchio alla paratia. Qualcosa di molle sembrava che venisse sbattuto con regolarità contro la sottile parete e graffiava e schiumava di rabbia impotente nella gola.
Adriano era ormai completamente terrorizzato.
Di nuovo si attaccò al campanello di chiamata, chiedendosi se funzionasse o se chi lo sentiva avesse il coraggio di uscire in quel corridoio dove, ormai ne era sicuro, qualcosa di schifoso si agitava e si dibatteva.
Il treno era intanto uscito dalla galleria e attraversava un punto particolarmente accidentato, perché Adriano si sentiva sballottare continuamente da ogni lato e non avrebbe saputo giudicare in quale direzione stessero muovendosi i vagoni.
Alzò la tendina, ma il vetro del finestrino era di un bianco lattiginoso e come uno specchio gli rimandò la sua immagine stralunata. Fuori soltanto nebbia e profili di cose.
Le urla nella cabina accanto erano adesso di una tale intensità che Adriano non dubitò più che potessero essere udite anche dagli altri passeggeri, e questo aumentò la sua sfiducia in un intervento risolutore dall'esterno; quel treno che viaggiava a folle velocità conteneva qualche mostruosità che nessuno poteva eliminare e che ora certamente avrebbe tentato di introdursi nella sua cabina. La voce doppia ormai urlava a squarciagola frasi in un idioma completamente sconosciuto e allo sciaguattare sul pavimento davanti alla sua porta si era aggiunto un brusio di vocine indistinte e colpi battuti sempre più violentemente.
Disperato, si appoggiò con tutto il suo peso contro la maniglia e cominciò a gridare, ma sapeva che era inutile, il coro bestiale che ormai si alzava da tutti i lati dello scompartimento, era accompagnato dal rumore repellente delle cose viscide che sbattevano sul legno nel tentativo di aprirsi un varco verso di lui. Adriano spingeva la porta pregando e singhiozzando, ma era troppo scosso nella mente per riuscire ad organizzare una difesa ragionata contro l'irragionevole. Troppo tardi capì che avrebbe dovuto tentare di arrivare alla maniglia del freno d’emergenza.
Quando si accorse che la porta stava per cedere tirò giù il vetro del finestrino e piangendo saltò nel vuoto.