Adriano controllò per l'ennesima
volta che la porta del suo scompartimento fosse ben chiusa, o come
diceva la scritta: " bien fermé, shut, zu ".
Non che avesse timore di essere
derubato, ma sempre, quando si trovava in un luogo che non gli fosse
completamente familiare, ci teneva ad eseguire minuziosamente tutte
le istruzioni che riusciva a leggere, quasi si sentisse osservato e
giudicato da un occhio nascosto.
Soddisfatto dell'esame della
serratura si sedette sul letto e aperta la valigia ne tirò fuori il
pigiama cominciando a svestirsi.
Aveva aspettato che il treno si
mettesse in movimento per celebrare il rituale serale: andare al
gabinetto, chiedere al controllore una bottiglia d’acqua minerale e
la sveglia per l'indomani con un caffè bollente, un'ora prima
dell'arrivo in stazione.
Adesso, mentre si infilava tra le
lenzuola fresche di bucato, considerava l'aspetto consueto e
confortevole della carrozza letto.
Nell'entrare, sul cuscino aveva
trovato un candido, minuscolo asciugamani che aveva diligentemente
riposto nel vano ricavato dietro lo specchio orientabile, accanto
alla bottiglia dell'acqua e ai bicchieri con il simbolo delle
ferrovie. In effetti quasi tutto intorno a lui portava il marchio
dell'Ente Ferroviario: le grucce alle quali aveva appeso i suoi
abiti, il posacenere retrattile, le microscopiche saponette poggiate
sul bordo del lavabo a scomparsa e persino l'orrendo orinale di
ceramica nascosto dietro un piccolo sportello, sotto il lavandino!
Lo specchio fisso aveva una luce
incorporata, di modesta utilità nel radersi, ma forse comoda per il
trucco delle signore.
Del resto la cabina aveva una buona
illuminazione: luce giorno, luce notte, e sulla testata del letto una
lampadina ad intensità variabile per poter leggere più agevolmente.
Completavano il quadro comandi di
quel temporaneo abitacolo, un pulsante dalla scritta altisonante "per
la chiamata del personale di vettura" e su su, in alto, la rossa
e tentatrice maniglia del freno di emergenza.
Attaccato alla lampada da lettura,
quasi dietro al suo orecchio sinistro, c'era un minuscolo cuscinetto
di velluto verde con un gancetto in cima, dove Adriano appese il suo
orologio, affinché gli ondeggiamenti del vagone non lo facessero
battere contro la parete.
Il ritmico rollio della cabina
cominciò ad assopirlo, come quando da bambino si addormentava sul
fondo della barca di suo padre, cullato dallo sciabordio dell'acqua.
Notò la scritta sul finestrino di
fronte a lui che raccomandava ai passeggeri di non gettare fuori
alcun oggetto, e sorrise ricordando di aver visto nello
scompartimento di un vecchio trenino a gasolio l'oscena targhetta
"VIETATO SPUTARE PER TERRA", che sottintendeva altresì la
liceità di sputare da qualunque altra parte.
Ma in quell'atmosfera così
confortevole, quasi domestica, tutte quelle raccomandazioni incollate
sulle pareti avevano il tono di consigli, di inviti gentili ad un
comportamento civile, che però non suggerivano un contenuto
minaccioso.
Come gli erano sembrate diverse le
grandi scritte lampeggianti lette quella volta in aereo, imperiose e
gravide di implicazioni pericolose!
Intendiamoci, non é che Adriano
avesse paura.
La sua titubanza riguardo agli aerei
e in generale alla possibilità di volare si poteva ascrivere ad una
sola esperienza che peraltro non era andata poi troppo male.
Quello che lo sosteneva nella sua
presa di posizione sul volo, era un semplicissimo ragionamento, anzi,
la più semplice delle intuizioni che avevano accompagnato la gran
parte della umanità fin dal suo primo apparire su questo pianeta: è
impossibile che qualsiasi oggetto più pesante dell'aria possa
sostenervisi senza prima o poi dover rispettare la legge di gravità,
tornando più o meno violentemente a terra.
Questo in sostanza era quello che si
era ripetuto durante tutta la notte precedente il suo primo ed unico
volo, ed in effetti, la mattina successiva era così convinto
dell'evidenza di quella verità, che cercò in tutti i modi di
persuadere sua moglie che tutto sommato non era affatto necessario un
rientro così frettoloso e che potevano benissimo fare ancora un
tentativo di trovare un treno e poi un traghetto e ancora un altro
treno per poter tornare "comodamente" a casa. Lei lo guardò
come si guarda uno che avendo la febbre a quaranta, farnetichi parole
insensate, e senza prendersi il disturbo di ribattere continuò a
tentare di chiudere la valigia.
Il fatto che non si prendesse
minimamente in considerazione la sua proposta lo fece desistere dal
tentativo di argomentarla in qualche modo e lo convinse della
esistenza di una Volontà Superiore che aveva deciso che quello
sarebbe stato il loro ultimo giorno. Ciò nonostante preparò il
suo bagaglio e i documenti con meticolosità, perché non voleva che
in seguito uno stupido funzionario di polizia avesse potuto criticare
il disordine con il quale i passeggeri preparavano valigie ed
effetti personali che aumentava la confusione dei resti e impediva
il riconoscimento delle salme.
Lo stato di trance in cui era caduto
durò per tutto il tragitto dall'albergo all'aeroporto, con sua
moglie che lo strattonava e lo spingeva e lui che come un automa
eseguiva goffamente anche i gesti più semplici.
L'ipnosi si ruppe solo dopo che ebbe
attraversato la rugosa proboscide che lo sputò al suo posto nella
carlinga dell'aeroplano. Guardandosi intorno cominciò a rendersi
conto dell'atmosfera assolutamente serena e rilassata con cui gli
altri passeggeri, in maggioranza turisti, cercavano il loro posto e
conversavano e scherzavano. Nessuno di loro sembrava preoccupato
della disgrazia imminente.
Sua moglie, che naturalmente si era
accorta di quella tensione, cercava insistentemente di indurlo a
razionalizzare la paura, con l'unico risultato di irritarlo e
agitarlo ancora di più. Allacciò comunque la cintura di sicurezza
obbedendo all'ordine impartito dalla scritta luminosa che campeggiava
sulla porta di passaggio alla cabina dei piloti, e cercò di
calmarsi.
Gli venne in mente che quando
aspettavano il loro primo bambino, aiutava sua moglie in una serie
di esercizi di respirazione che dovevano servire a rilassarla al
momento del parto. Tentò allora di controllare il respiro inspirando
profondamente ed espirando con lentezza dopo un attimo di pausa.
La cosa sembrò calmarlo un tantino,
ma mentre cominciava a riprendere fiducia nelle teorie di quel
brav'uomo di Leonardo da Vinci, la voce del comandante lo fece
sussultare.
Che la compagnia di volo fosse
felice di averlo a bordo se lo era immaginato, visto il costo del
biglietto, ma che il comandante in persona facesse pubblicità ad una
multinazionale che produce sigarette e addirittura suggerisse di
acquistare cioccolato e profumi al duty free gli sembrò per la
verità, molto poco professionale. Non ebbe il tempo di soffermarsi
sull'ipotesi di avere un bottegaio come pilota, perché senza che
nessuno lo avesse avvisato, l'aereo incominciò a muoversi.
Solo allora si rese conto che gli
addetti avevano già chiuso i portelli facendolo prigioniero in
quell'angusto tubo di acciaio dal quale non poteva più fuggire. La
scritta "VIETATO FUMARE" che si accese accanto alla prima,
gli parve totalmente superflua giacché non immaginava qualcuno che
potesse aver voglia di fumare in quel momento.
In effetti, Adriano si accorse che i
passeggeri avevano smesso di chiacchierare e, chi più chi meno,
cercavano di dissimulare in altre piccole attività silenziose una
certa ansia che pure dovevano avere e che fino a quel momento avevano
subdolamente nascosto solo per farlo sentire ancora più a disagio.
L'aereo intanto procedeva speditamente verso la pista di decollo al
limite della quale si fermò in attesa dell' OK della torre di
controllo.
" Ci siamo " pensò,
rendendosi conto che quello era il momento che tutti
inconsapevolmente aspettavano.
Chiuse gli occhi quando i motori
salirono di giri lentamente, finché il rombo diventò un urlo e
l'aereo con un morbido balzo si lanciò in avanti. Sentiva le
vibrazioni dei possenti reattori percorrere tutta la struttura del
velivolo e salirgli per le vertebre della spina dorsale, su, su per
la scatola cranica fino a fargli tremare i denti.
S’irrigidì, teso contro lo
schienale del sedile, le mani aggrappate ai braccioli in attesa
dell'impennata finale, ma quando spalancò gli occhi correvano ancora
sulla pista ad una velocità ormai folle e in quell'attimo Adriano
ebbe la certezza che quel mostro così pesante non sarebbe mai
riuscito ad alzarsi in volo perché l'immensità di quella massa di
metallo non avrebbe mai potuto reggersi nel vuoto.
Ma in quel momento, con i motori che
gemevano sotto la spinta di un’energia bestiale, il muso del
velivolo si alzò prepotentemente verso l'alto e l'aereo si staccò
da terra.
La forza di gravità lo schiacciò
contro lo schienale e si sentì mancare. Richiuse gli occhi
sforzandosi di non svenire.
Capì di essersi iperventilato e che
gli esercizi di rilassamento erano serviti solo ad ubriacarlo
d’ossigeno. Smise di respirare accorgendosi che le sue pelvi
stavano spingendo in avanti premendo contro il sedile, come se
sentissero l'immenso sforzo di arrampicarsi nel nulla e volessero
aiutare l'aeroplano a salire sempre più su. Riaprì gli occhi.
L'aereo sembrava immobile, fermo nel vuoto come in stallo, ma dopo un
interminabile secondo rialzò la pesantissima coda e si appoggiò
sull'aria che incredibilmente lo sostenne.
Un campanello lo avvisò che il
peggio era passato e che ora poteva slacciare la cintura di
sicurezza.
La testa gli girava ancora, ma ebbe
la capacità di voltarsi e rispondere con un debole sorriso alle
parole di sua moglie.
Il resto del viaggio continuò senza
eccessivi problemi, con i passeggeri che bivaccavano come in una
allegra gita in torpedone, incuranti della propria incolumità e
Adriano che se ne stette immobile, teso ad ogni minima variazione di
assetto, ad ogni vibrazione o rumore nuovo che subito confrontava con
quelli precedenti per cercare d'intuire quali cambiamenti erano
intervenute alla normalità del volo. Faceva corpo con l'aereo, gli
sembrava d’essere tutt'uno con la fusoliera, avvertiva ogni minimo
vuoto d'aria, ogni piccolissimo scivolamento d'ala, ogni
impercettibile mutamento di rotta.
Infine, come Dio volle, arrivarono
in prossimità di Fiumicino e la vista delle case e del terreno gli
infuse nuovo coraggio. Aveva letto da qualche parte che i momenti più
pericolosi di un volo sono la partenza e l'atterraggio, ma la
vicinanza dell'aeroporto gli fece dimenticare tutti i suoi timori,
anzi per la verità lo rinvigorì non poco.
Scendevano rapidamente, immersi
nella luce di un sole familiare, nulla gli sarebbe ormai potuto
accadere, non a pochi minuti da casa sua.
L'aria esterna gli apparve
visibilmente più tiepida del gelo rarefatto che avevano incontrato
in quota, gli sembrava di sentirla scorrere sulle ali riscaldandole,
allora distese le gambe spingendo fuori il carrello d’atterraggio,
si rilassò contro il sedile avvertendo che il regime dei motori
scendeva di giri e si preparò alla tanto attesa sensazione di
poggiare il culo sulla pista, finalmente in salvo.
Quando le ruote toccarono con gran
rumore il cemento, tirò un sospiro di sollievo e smise di pregare,
ringraziando tutti gli Dei della collaborazione prestata, e nel
sentire il pilota che si augurava di riaverli a bordo del suo aereo,
riuscì persino a sorridere, facendo mentalmente un gesto osceno.
Da quel giorno non aveva mai più
preso un aereo, anzi aveva verificato, andando in aeroporto per
ricevere o accompagnare qualche amico, che soltanto l'odore del
kerosene o il rombo dei reattori dei velivoli che si spostavano sulle
piste, bastavano a dargli la tachicardia.
Per i sui brevi spostamenti di
lavoro usava l'automobile e per i viaggi più lunghi il treno, che
rimaneva il suo mezzo di trasporto preferito.
Ogni volta che parlava con qualcuno
che esaltava le qualità infinite dell'aeroplano, si chiedeva che
vantaggio ci fosse nell'alzarsi alle sei di mattina, per essere in
aeroporto alle sette, fare il check-in e decollare alle otto per
essere a Milano alle nove, quando lui otteneva lo stesso risultato
prendendo un comodissimo vagone letto che partiva alle dieci di sera
dalla stazione e alle otto arrivava riposato, fresco e sbarbato al
pari di tutti quei frenetici aviatori.
"L'uomo - pensava Adriano -
dovrebbe seguire ritmi più naturali, calibrati sulla lunghezza del
suo passo, sulla durata della sua giornata, e non costringere il
tempo a ripiegarsi su se stesso, compresso nelle turbine di motori
sempre più potenti. Da sempre abbiamo imparato a misurare lo spazio
con il tempo, la lontananza con l'attesa, invece lo stramaledetto
aereo, al contrario, ti fa perdere la cognizione della distanza, non
hai più la coscienza del tragitto, del percorso che occorre fare per
andare da un posto all'altro. Ti convinci che Parigi sia lontana due
ore e Londra tre, ma non è vero, è una finzione della nostra mente
che semplifica una realtà infinitamente complessa fatta di campagne,
fiumi, città, montagne possenti da superare, mari da navigare,
luoghi da attraversare.
Ed era in quella multiforme oscurità
che il suo treno sfrecciava adesso, ondeggiando, sobbalzando nel buio
e gridando a tutta la campagna del suo imminente arrivo.
Adriano spense la luce e si
addormentò sereno, pensando che di treni dirottati da terroristi non
se n'era ancora mai sentito parlare.
§§§§§§§§§§§§§§§
Non capì che cosa lo avesse
svegliato, ma sicuramente doveva essere ancora notte fonda. Allungò
una mano sopra la testa e cercò tentoni il pulsante che accendeva la
luce notturna.
Guardò l'orologio: le due e
quaranta.
A quell'ora l'alba non sembra più
di una promessa, lontana e inconsistente. Aveva l'impressione che
durante il sonno qualcosa intorno a lui si fosse modificata, come se
gli abiti o la valigia o la bottiglia dell'acqua minerale si fossero
mosse da sole, cambiando la loro misera condizione di oggetti
inanimati.
Si scosse con un brivido da quella
ridicola riflessione e controllò che la porta dello scompartimento
fosse ben chiusa.
Aveva un po' freddo adesso. Girò la
manopola dell'aria condizionata, si rinfilò nel letto e spense la
luce.
Chiuse gli occhi, ma li riaprì
quasi subito perché cominciava ad avere la strana sensazione che
nella cabina non fosse completamente solo.
Restò allora con gli occhi sbarrati
nel buio, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi suono che non fosse il
rumore regolare degli scambi e delle giunzioni dei binari, o il
cigolio delle strutture del vagone quando il treno affrontava una
curva. Nella solitudine notturna, qualsiasi sensazione, qualsiasi
pensiero sembrava amplificarsi, dilatarsi fino a raggiungere i
confini della ragione. Ebbe un tuffo al cuore quando un treno che
sfrecciava nell'altro senso fece vibrare il finestrino, dandogli l'
impressione che avessero urtato un solido muro d'aria.
Una fermata.
Sarà un semaforo o una stazione? Un
guasto o manca il prossimo ponte trascinato via dalla piena del
fiume?
Accese la luce da lettura nella
speranza di rilassarsi un poco sfogliando qualcuna di quelle
pubblicazioni graziosamente inutili di cui sono piene le cabine
letto, ma la reticella accanto all'orologio era vuota.
Il fondo della cuccetta superiore
era un’orrenda stampa ottocentesca di Napoli vista dalla Riviera di
Chiaia, che lo incoraggiò a chiudere gli occhi nel tentativo di
riprendere sonno.
Nuovamente spense la lampadina.
Nel buio lentamente cominciò a
distinguere brani di conversazione che giungevano ovattati dallo
scompartimento vicino attraverso la parete di separazione e ad un
certo momento avvertì come un rumore di piccoli passi nel corridoio,
attutiti dal tappeto ma che mostravano chiaramente un'incertezza,
un'esitazione su dove andare. Trattenne il fiato quando si accorse
che il passeggiatore notturno si fermava proprio davanti alla sua
porta, e rimase in attesa del gesto che conduceva alla maniglia.
Ma il ladro, se di ladro si
trattava, era evidentemente indeciso sulla scelta della sua vittima e
Adriano non avvertì alcuna pressione sul battente.
Allora si decise, accese la luce e
contemporaneamente diede grandi colpi di tosse per rendere palese la
sua insonnia e mettere in guardia lo sconosciuto ché desistesse
dall'ingenuo tentativo di sorprenderlo nell'incoscienza. Ma non ci fu
il rumore di passi in fuga che lui aveva previsto, né alcun suono
che indicasse la presenza di qualcuno davanti al suo scompartimento.
Adriano, preso coraggio, si alzò e
aprì di scatto la porta. Nessuno.
Nessuno nel corridoio e neanche nel
gabinetto, visto che le lucine di cortesia erano spente. Il vagone si
presentava esattamente come avrebbe dovuto essere a quell'ora di
notte: deserto.
Perplesso, stava per richiudere la
porta quando la sua attenzione fu richiamata dal suono delle voci
della cabina accanto. Una era una voce doppia, sicuramente maschile,
l'altra una vocina stridula che si sarebbe detto appartenere più ad
una bambina che ad una donna, ma che aveva un tono lamentoso, quasi
cantilenante, come di un idiota che ripeta stolidamente la stessa
frase senza senso con la caparbietà del demente.
La voce grossa sembrava irritata, ma
per quanto si sforzasse, Adriano non riusciva a capire che cosa
stessero dicendo. Fece per accostarsi di più alla porta, ma al primo
passo che azzardò sulla moquette del corridoio finì con il piede
nudo su una macchia scura e attaccaticcia.
Si ritrasse a sedere sul suo letto
bestemmiando e trovato uno dei piccoli asciugamani tentò di
ripulirsi da quella schifezza. Sembrava una sorta di muco che puzzava
fortemente di grasso bruciato.
Una frenata improvvisa del treno
chiuse violentemente la porta e Adriano ci mise la sicura. Per
togliere di mezzo quell'odore nauseabondo gettò l'asciugamano sporco
nello sportellino con l'orinale e intanto si chiedeva che cosa
potesse essere quella mucillagine che insozzava il corridoio proprio
e solo davanti al suo scompartimento, visto che quando era salito
sicuramente non c'era, altrimenti lui non avrebbe potuto mancare di
finirci dentro.
Accorgendosi di essere completamente
gelato, accese il riscaldamento e s’infilò di nuovo sotto le
coperte cercando di riprendere un po' di calore. Esitò per un attimo
con la mano accanto all'interruttore, perché la sensazione di una
presenza dentro la cabina non lo aveva lasciato e non se la
sentiva di spegnere la luce. Optò per la penombra azzurrognola della
lampadina notturna, ma era troppo agitato per riprendere sonno.
Come se non bastasse, il duetto di
voci della cabina accanto era aumentato di intensità. La voce che
sembrava maschile adesso gridava quasi mentre quella più sottile
ansimava in un frenetico balbettio indistinto.
Adriano stava considerando
l'opportunità di premere il campanello per chiamare il controllore,
quando il treno s’imbucò dentro a una galleria e il rumore
improvviso gli causò uno spavento che lo tirò su a sedere nel
letto. Gli si erano tappate le orecchie, e per quanto deglutisse, non
si sturavano. Fu allora che avvertì alcuni colpi sordi battuti
contro la separazione tra i due scompartimenti e un gorgoglio
strozzato che gli fece accapponare la pelle. Sembrava provenire
dall'angolo buio della sua cabina, accanto alla porta.
La mano di Adriano volò agli
interruttori, e con una sola mossa accese la luce e premette il
pulsante di chiamata. Guardò inorridito nell'angolo che gemeva, ma
non c'era nulla che potesse produrre quel suono. Allora si alzò dal
letto e accostò l'orecchio alla paratia. Qualcosa di molle sembrava
che venisse sbattuto con regolarità contro la sottile parete e
graffiava e schiumava di rabbia impotente nella gola.
Adriano era ormai completamente
terrorizzato.
Di nuovo si attaccò al campanello
di chiamata, chiedendosi se funzionasse o se chi lo sentiva avesse il
coraggio di uscire in quel corridoio dove, ormai ne era sicuro,
qualcosa di schifoso si agitava e si dibatteva.
Il treno era intanto uscito dalla
galleria e attraversava un punto particolarmente accidentato, perché
Adriano si sentiva sballottare continuamente da ogni lato e non
avrebbe saputo giudicare in quale direzione stessero muovendosi i
vagoni.
Alzò la tendina, ma il vetro del
finestrino era di un bianco lattiginoso e come uno specchio gli
rimandò la sua immagine stralunata. Fuori soltanto nebbia e profili
di cose.
Le urla nella cabina accanto erano
adesso di una tale intensità che Adriano non dubitò più che
potessero essere udite anche dagli altri passeggeri, e questo aumentò
la sua sfiducia in un intervento risolutore dall'esterno; quel treno
che viaggiava a folle velocità conteneva qualche mostruosità che
nessuno poteva eliminare e che ora certamente avrebbe tentato di
introdursi nella sua cabina. La voce doppia ormai urlava a
squarciagola frasi in un idioma completamente sconosciuto e allo
sciaguattare sul pavimento davanti alla sua porta si era aggiunto un
brusio di vocine indistinte e colpi battuti sempre più
violentemente.
Disperato, si appoggiò con tutto il
suo peso contro la maniglia e cominciò a gridare, ma sapeva che era
inutile, il coro bestiale che ormai si alzava da tutti i lati dello
scompartimento, era accompagnato dal rumore repellente delle cose
viscide che sbattevano sul legno nel tentativo di aprirsi un varco
verso di lui. Adriano spingeva la porta pregando e singhiozzando, ma
era troppo scosso nella mente per riuscire ad organizzare una difesa
ragionata contro l'irragionevole. Troppo tardi capì che avrebbe
dovuto tentare di arrivare alla maniglia del freno d’emergenza.
Quando si accorse che la porta stava
per cedere tirò giù il vetro del finestrino e piangendo saltò nel
vuoto.
Che dire Giulio? Mi piace assai!
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