domenica 10 novembre 2013

Chiavi

Ovviamente ho una chiave per la porta di casa.
Una per il portone.
Una per la cantinola.
Una per il garage.
Una per il portoncino che immette nel garage.
E un telecomando per la porta basculante.
E una chiave per il cancello di fuori.
Con un telecomando.
E una chiave per il cancelletto pedonale.
E una per la cassetta delle lettere.
Naturalmente ho una chiave per l'automobile.
Una del bloccasterzo.
E una per il portone dei miei.
Una del cancello del loro cortile.
Con il relativo telecomando.
Le chiavi di casa loro.
E la chiave del portoncino che dà nel cortile.
Un telecomando per la sbarra sotto casa di Massimo.
E anche le chiavi di casa sua per qualsiasi evenienza.
In auto tengo anche il telecomando del cortile di Luciano, per trovare posto quando ci vado.
Un'altra chiave mi serve per il cancello di quello dell'ufficio, dove metto l'auto.
E una per la porta dell'ufficio.
Ho una copia di molte di queste chiavi che conservo in un cassetto con dei bigliettini che servono a farmele riconoscere.
Ho anche un barattolo di vetro pieno di chiavi che non so di cosa sono, ma che non ho il coraggio di buttare via.
L'altro ieri sera sono uscito per andare a prendere Anna a casa di un'amica.
Chiudere la porta di casa e realizzare che avevo lasciato le chiavi sul mobile dell'ingresso è stato un attimo.
L'attimo nel quale ti rendi conto che hai fatto una mossa sbagliata e non puoi più rimediare.
E' quel momento quando capisci che hai detto “filglio di puttana” a uno che lo è davvero, è più grosso di te, e fa parte del Clan dei Casalesi.
E dall'auto non scende da solo, scendono in quattro.
Tornando ad Anna, naturalmente lei non si era portata la borsa con le sue copie.
Dico “naturalmente” perchè quando il Dio delle Cose decide che ti deve fare incazzare, si organizza bene.
Ma tu no.
Hai con te le chiavi della macchina piccola, e vai a casa dei tuoi dove ti sembra di ricordare che una volta, in un accesso di buonsenso, hai lasciato una copia delle chiavi da casa tua perchè non si può mai sapere.
Arrivi a casa loro, ma non hai le chiavi né del portone, né di casa, nè del cancello grande del cortile, nè del portoncino che dà nel palazzo.
Tuo padre alle undici di sera ha la buona abitudine di mettere le cuffie per ascoltare la tv senza svegliare tua madre.
E non sente il citofono.
Ma tu hai il cellulare e alla fine riesci a farti aprire.
Le copia delle chiavi che ricordavi di aver lasciato a casa loro c'è, ma è della vecchia serratura che hai fatto cambiare l'anno scorso.
A questo punto non sei nemmeno più incazzato.
Sei rassegnato.
Anna per fortuna è più lucida di te, e si ricorda che la signora delle pulizie ha una copia delle chiavi, che utilizza per entrare quando non siete in casa.
Ma la signora non risponde al telefono di casa e non è raggiungibile al cellulare.
Però sappiamo dove abita.
Ci andiamo e aspettiamo in auto che torni dalla cena in pizzeria.
E così finalmente possiamo rientrare in casa.

Mi ricordo che in vacanza a Spello in Umbria, ma anche in Lucania, o ad Alberobello, notai che i portoncini dei palazzi avevano un foro, e che da questo a volte fuoriusciva una cordicella.
Mi spiegarono che la persona che usciva, prima di chiudere il portone, infilava nel foro la cordicella che era legata al catenaccio, facendola penzolare al di fuori.
Così non era costretto a portarsi dietro le chiavi.
Semplice no?

G.





giovedì 7 novembre 2013

Elogio del treno


Adriano controllò per l'ennesima volta che la porta del suo scompartimento fosse ben chiusa, o come diceva la scritta: " bien fermé, shut, zu ".
Non che avesse timore di essere derubato, ma sempre, quando si trovava in un luogo che non gli fosse completamente familiare, ci teneva ad eseguire minuziosamente tutte le istruzioni che riusciva a leggere, quasi si sentisse osservato e giudicato da un occhio nascosto.
Soddisfatto dell'esame della serratura si sedette sul letto e aperta la valigia ne tirò fuori il pigiama cominciando a svestirsi.
Aveva aspettato che il treno si mettesse in movimento per celebrare il rituale serale: andare al gabinetto, chiedere al controllore una bottiglia d’acqua minerale e la sveglia per l'indomani con un caffè bollente, un'ora prima dell'arrivo in stazione.
Adesso, mentre si infilava tra le lenzuola fresche di bucato, considerava l'aspetto consueto e confortevole della carrozza letto.
Nell'entrare, sul cuscino aveva trovato un candido, minuscolo asciugamani che aveva diligentemente riposto nel vano ricavato dietro lo specchio orientabile, accanto alla bottiglia dell'acqua e ai bicchieri con il simbolo delle ferrovie. In effetti quasi tutto intorno a lui portava il marchio dell'Ente Ferroviario: le grucce alle quali aveva appeso i suoi abiti, il posacenere retrattile, le microscopiche saponette poggiate sul bordo del lavabo a scomparsa e persino l'orrendo orinale di ceramica nascosto dietro un piccolo sportello, sotto il lavandino!
Lo specchio fisso aveva una luce incorporata, di modesta utilità nel radersi, ma forse comoda per il trucco delle signore.
Del resto la cabina aveva una buona illuminazione: luce giorno, luce notte, e sulla testata del letto una lampadina ad intensità variabile per poter leggere più agevolmente.
Completavano il quadro comandi di quel temporaneo abitacolo, un pulsante dalla scritta altisonante "per la chiamata del personale di vettura" e su su, in alto, la rossa e tentatrice maniglia del freno di emergenza.
Attaccato alla lampada da lettura, quasi dietro al suo orecchio sinistro, c'era un minuscolo cuscinetto di velluto verde con un gancetto in cima, dove Adriano appese il suo orologio, affinché gli ondeggiamenti del vagone non lo facessero battere contro la parete.
Il ritmico rollio della cabina cominciò ad assopirlo, come quando da bambino si addormentava sul fondo della barca di suo padre, cullato dallo sciabordio dell'acqua.
Notò la scritta sul finestrino di fronte a lui che raccomandava ai passeggeri di non gettare fuori alcun oggetto, e sorrise ricordando di aver visto nello scompartimento di un vecchio trenino a gasolio l'oscena targhetta "VIETATO SPUTARE PER TERRA", che sottintendeva altresì la liceità di sputare da qualunque altra parte.
Ma in quell'atmosfera così confortevole, quasi domestica, tutte quelle raccomandazioni incollate sulle pareti avevano il tono di consigli, di inviti gentili ad un comportamento civile, che però non suggerivano un contenuto minaccioso.
Come gli erano sembrate diverse le grandi scritte lampeggianti lette quella volta in aereo, imperiose e gravide di implicazioni pericolose!
Intendiamoci, non é che Adriano avesse paura.
La sua titubanza riguardo agli aerei e in generale alla possibilità di volare si poteva ascrivere ad una sola esperienza che peraltro non era andata poi troppo male.
Quello che lo sosteneva nella sua presa di posizione sul volo, era un semplicissimo ragionamento, anzi, la più semplice delle intuizioni che avevano accompagnato la gran parte della umanità fin dal suo primo apparire su questo pianeta: è impossibile che qualsiasi oggetto più pesante dell'aria possa sostenervisi senza prima o poi dover rispettare la legge di gravità, tornando più o meno violentemente a terra.
Questo in sostanza era quello che si era ripetuto durante tutta la notte precedente il suo primo ed unico volo, ed in effetti, la mattina successiva era così convinto dell'evidenza di quella verità, che cercò in tutti i modi di persuadere sua moglie che tutto sommato non era affatto necessario un rientro così frettoloso e che potevano benissimo fare ancora un tentativo di trovare un treno e poi un traghetto e ancora un altro treno per poter tornare "comodamente" a casa. Lei lo guardò come si guarda uno che avendo la febbre a quaranta, farnetichi parole insensate, e senza prendersi il disturbo di ribattere continuò a tentare di chiudere la valigia.
Il fatto che non si prendesse minimamente in considerazione la sua proposta lo fece desistere dal tentativo di argomentarla in qualche modo e lo convinse della esistenza di una Volontà Superiore che aveva deciso che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno. Ciò nonostante preparò il suo bagaglio e i documenti con meticolosità, perché non voleva che in seguito uno stupido funzionario di polizia avesse potuto criticare il disordine con il quale i passeggeri preparavano valigie ed effetti personali che aumentava la confusione dei resti e impediva il riconoscimento delle salme.
Lo stato di trance in cui era caduto durò per tutto il tragitto dall'albergo all'aeroporto, con sua moglie che lo strattonava e lo spingeva e lui che come un automa eseguiva goffamente anche i gesti più semplici.
L'ipnosi si ruppe solo dopo che ebbe attraversato la rugosa proboscide che lo sputò al suo posto nella carlinga dell'aeroplano. Guardandosi intorno cominciò a rendersi conto dell'atmosfera assolutamente serena e rilassata con cui gli altri passeggeri, in maggioranza turisti, cercavano il loro posto e conversavano e scherzavano. Nessuno di loro sembrava preoccupato della disgrazia imminente.
Sua moglie, che naturalmente si era accorta di quella tensione, cercava insistentemente di indurlo a razionalizzare la paura, con l'unico risultato di irritarlo e agitarlo ancora di più. Allacciò comunque la cintura di sicurezza obbedendo all'ordine impartito dalla scritta luminosa che campeggiava sulla porta di passaggio alla cabina dei piloti, e cercò di calmarsi.
Gli venne in mente che quando aspettavano il loro primo bambino, aiutava sua moglie in una serie di esercizi di respirazione che dovevano servire a rilassarla al momento del parto. Tentò allora di controllare il respiro inspirando profondamente ed espirando con lentezza dopo un attimo di pausa.
La cosa sembrò calmarlo un tantino, ma mentre cominciava a riprendere fiducia nelle teorie di quel brav'uomo di Leonardo da Vinci, la voce del comandante lo fece sussultare.
Che la compagnia di volo fosse felice di averlo a bordo se lo era immaginato, visto il costo del biglietto, ma che il comandante in persona facesse pubblicità ad una multinazionale che produce sigarette e addirittura suggerisse di acquistare cioccolato e profumi al duty free gli sembrò per la verità, molto poco professionale. Non ebbe il tempo di soffermarsi sull'ipotesi di avere un bottegaio come pilota, perché senza che nessuno lo avesse avvisato, l'aereo incominciò a muoversi.
Solo allora si rese conto che gli addetti avevano già chiuso i portelli facendolo prigioniero in quell'angusto tubo di acciaio dal quale non poteva più fuggire. La scritta "VIETATO FUMARE" che si accese accanto alla prima, gli parve totalmente superflua giacché non immaginava qualcuno che potesse aver voglia di fumare in quel momento.
In effetti, Adriano si accorse che i passeggeri avevano smesso di chiacchierare e, chi più chi meno, cercavano di dissimulare in altre piccole attività silenziose una certa ansia che pure dovevano avere e che fino a quel momento avevano subdolamente nascosto solo per farlo sentire ancora più a disagio. L'aereo intanto procedeva speditamente verso la pista di decollo al limite della quale si fermò in attesa dell' OK della torre di controllo.
" Ci siamo " pensò, rendendosi conto che quello era il momento che tutti inconsapevolmente aspettavano.
Chiuse gli occhi quando i motori salirono di giri lentamente, finché il rombo diventò un urlo e l'aereo con un morbido balzo si lanciò in avanti. Sentiva le vibrazioni dei possenti reattori percorrere tutta la struttura del velivolo e salirgli per le vertebre della spina dorsale, su, su per la scatola cranica fino a fargli tremare i denti.
S’irrigidì, teso contro lo schienale del sedile, le mani aggrappate ai braccioli in attesa dell'impennata finale, ma quando spalancò gli occhi correvano ancora sulla pista ad una velocità ormai folle e in quell'attimo Adriano ebbe la certezza che quel mostro così pesante non sarebbe mai riuscito ad alzarsi in volo perché l'immensità di quella massa di metallo non avrebbe mai potuto reggersi nel vuoto.
Ma in quel momento, con i motori che gemevano sotto la spinta di un’energia bestiale, il muso del velivolo si alzò prepotentemente verso l'alto e l'aereo si staccò da terra.
La forza di gravità lo schiacciò contro lo schienale e si sentì mancare. Richiuse gli occhi sforzandosi di non svenire.
Capì di essersi iperventilato e che gli esercizi di rilassamento erano serviti solo ad ubriacarlo d’ossigeno. Smise di respirare accorgendosi che le sue pelvi stavano spingendo in avanti premendo contro il sedile, come se sentissero l'immenso sforzo di arrampicarsi nel nulla e volessero aiutare l'aeroplano a salire sempre più su. Riaprì gli occhi. L'aereo sembrava immobile, fermo nel vuoto come in stallo, ma dopo un interminabile secondo rialzò la pesantissima coda e si appoggiò sull'aria che incredibilmente lo sostenne.
Un campanello lo avvisò che il peggio era passato e che ora poteva slacciare la cintura di sicurezza. 
La testa gli girava ancora, ma ebbe la capacità di voltarsi e rispondere con un debole sorriso alle parole di sua moglie.
Il resto del viaggio continuò senza eccessivi problemi, con i passeggeri che bivaccavano come in una allegra gita in torpedone, incuranti della propria incolumità e Adriano che se ne stette immobile, teso ad ogni minima variazione di assetto, ad ogni vibrazione o rumore nuovo che subito confrontava con quelli precedenti per cercare d'intuire quali cambiamenti erano intervenute alla normalità del volo. Faceva corpo con l'aereo, gli sembrava d’essere tutt'uno con la fusoliera, avvertiva ogni minimo vuoto d'aria, ogni piccolissimo scivolamento d'ala, ogni impercettibile mutamento di rotta.
Infine, come Dio volle, arrivarono in prossimità di Fiumicino e la vista delle case e del terreno gli infuse nuovo coraggio. Aveva letto da qualche parte che i momenti più pericolosi di un volo sono la partenza e l'atterraggio, ma la vicinanza dell'aeroporto gli fece dimenticare tutti i suoi timori, anzi per la verità lo rinvigorì non poco.
Scendevano rapidamente, immersi nella luce di un sole familiare, nulla gli sarebbe ormai potuto accadere, non a pochi minuti da casa sua.
L'aria esterna gli apparve visibilmente più tiepida del gelo rarefatto che avevano incontrato in quota, gli sembrava di sentirla scorrere sulle ali riscaldandole, allora distese le gambe spingendo fuori il carrello d’atterraggio, si rilassò contro il sedile avvertendo che il regime dei motori scendeva di giri e si preparò alla tanto attesa sensazione di poggiare il culo sulla pista, finalmente in salvo.
Quando le ruote toccarono con gran rumore il cemento, tirò un sospiro di sollievo e smise di pregare, ringraziando tutti gli Dei della collaborazione prestata, e nel sentire il pilota che si augurava di riaverli a bordo del suo aereo, riuscì persino a sorridere, facendo mentalmente un gesto osceno.
Da quel giorno non aveva mai più preso un aereo, anzi aveva verificato, andando in aeroporto per ricevere o accompagnare qualche amico, che soltanto l'odore del kerosene o il rombo dei reattori dei velivoli che si spostavano sulle piste, bastavano a dargli la tachicardia.
Per i sui brevi spostamenti di lavoro usava l'automobile e per i viaggi più lunghi il treno, che rimaneva il suo mezzo di trasporto preferito.
Ogni volta che parlava con qualcuno che esaltava le qualità infinite dell'aeroplano, si chiedeva che vantaggio ci fosse nell'alzarsi alle sei di mattina, per essere in aeroporto alle sette, fare il check-in e decollare alle otto per essere a Milano alle nove, quando lui otteneva lo stesso risultato prendendo un comodissimo vagone letto che partiva alle dieci di sera dalla stazione e alle otto arrivava riposato, fresco e sbarbato al pari di tutti quei frenetici aviatori.
"L'uomo - pensava Adriano - dovrebbe seguire ritmi più naturali, calibrati sulla lunghezza del suo passo, sulla durata della sua giornata, e non costringere il tempo a ripiegarsi su se stesso, compresso nelle turbine di motori sempre più potenti. Da sempre abbiamo imparato a misurare lo spazio con il tempo, la lontananza con l'attesa, invece lo stramaledetto aereo, al contrario, ti fa perdere la cognizione della distanza, non hai più la coscienza del tragitto, del percorso che occorre fare per andare da un posto all'altro. Ti convinci che Parigi sia lontana due ore e Londra tre, ma non è vero, è una finzione della nostra mente che semplifica una realtà infinitamente complessa fatta di campagne, fiumi, città, montagne possenti da superare, mari da navigare, luoghi da attraversare.
Ed era in quella multiforme oscurità che il suo treno sfrecciava adesso, ondeggiando, sobbalzando nel buio e gridando a tutta la campagna del suo imminente arrivo.
Adriano spense la luce e si addormentò sereno, pensando che di treni dirottati da terroristi non se n'era ancora mai sentito parlare.
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Non capì che cosa lo avesse svegliato, ma sicuramente doveva essere ancora notte fonda. Allungò una mano sopra la testa e cercò tentoni il pulsante che accendeva la luce notturna.
Guardò l'orologio: le due e quaranta.
A quell'ora l'alba non sembra più di una promessa, lontana e inconsistente. Aveva l'impressione che durante il sonno qualcosa intorno a lui si fosse modificata, come se gli abiti o la valigia o la bottiglia dell'acqua minerale si fossero mosse da sole, cambiando la loro misera condizione di oggetti inanimati.
Si scosse con un brivido da quella ridicola riflessione e controllò che la porta dello scompartimento fosse ben chiusa.
Aveva un po' freddo adesso. Girò la manopola dell'aria condizionata, si rinfilò nel letto e spense la luce.
Chiuse gli occhi, ma li riaprì quasi subito perché cominciava ad avere la strana sensazione che nella cabina non fosse completamente solo.
Restò allora con gli occhi sbarrati nel buio, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi suono che non fosse il rumore regolare degli scambi e delle giunzioni dei binari, o il cigolio delle strutture del vagone quando il treno affrontava una curva. Nella solitudine notturna, qualsiasi sensazione, qualsiasi pensiero sembrava amplificarsi, dilatarsi fino a raggiungere i confini della ragione. Ebbe un tuffo al cuore quando un treno che sfrecciava nell'altro senso fece vibrare il finestrino, dandogli l' impressione che avessero urtato un solido muro d'aria.
Una fermata.
Sarà un semaforo o una stazione? Un guasto o manca il prossimo ponte trascinato via dalla piena del fiume?
Accese la luce da lettura nella speranza di rilassarsi un poco sfogliando qualcuna di quelle pubblicazioni graziosamente inutili di cui sono piene le cabine letto, ma la reticella accanto all'orologio era vuota.
Il fondo della cuccetta superiore era un’orrenda stampa ottocentesca di Napoli vista dalla Riviera di Chiaia, che lo incoraggiò a chiudere gli occhi nel tentativo di riprendere sonno.
Nuovamente spense la lampadina.
Nel buio lentamente cominciò a distinguere brani di conversazione che giungevano ovattati dallo scompartimento vicino attraverso la parete di separazione e ad un certo momento avvertì come un rumore di piccoli passi nel corridoio, attutiti dal tappeto ma che mostravano chiaramente un'incertezza, un'esitazione su dove andare. Trattenne il fiato quando si accorse che il passeggiatore notturno si fermava proprio davanti alla sua porta, e rimase in attesa del gesto che conduceva alla maniglia.
Ma il ladro, se di ladro si trattava, era evidentemente indeciso sulla scelta della sua vittima e Adriano non avvertì alcuna pressione sul battente.
Allora si decise, accese la luce e contemporaneamente diede grandi colpi di tosse per rendere palese la sua insonnia e mettere in guardia lo sconosciuto ché desistesse dall'ingenuo tentativo di sorprenderlo nell'incoscienza. Ma non ci fu il rumore di passi in fuga che lui aveva previsto, né alcun suono che indicasse la presenza di qualcuno davanti al suo scompartimento.
Adriano, preso coraggio, si alzò e aprì di scatto la porta. Nessuno.
Nessuno nel corridoio e neanche nel gabinetto, visto che le lucine di cortesia erano spente. Il vagone si presentava esattamente come avrebbe dovuto essere a quell'ora di notte: deserto.
Perplesso, stava per richiudere la porta quando la sua attenzione fu richiamata dal suono delle voci della cabina accanto. Una era una voce doppia, sicuramente maschile, l'altra una vocina stridula che si sarebbe detto appartenere più ad una bambina che ad una donna, ma che aveva un tono lamentoso, quasi cantilenante, come di un idiota che ripeta stolidamente la stessa frase senza senso con la caparbietà del demente.
La voce grossa sembrava irritata, ma per quanto si sforzasse, Adriano non riusciva a capire che cosa stessero dicendo. Fece per accostarsi di più alla porta, ma al primo passo che azzardò sulla moquette del corridoio finì con il piede nudo su una macchia scura e attaccaticcia.
Si ritrasse a sedere sul suo letto bestemmiando e trovato uno dei piccoli asciugamani tentò di ripulirsi da quella schifezza. Sembrava una sorta di muco che puzzava fortemente di grasso bruciato.
Una frenata improvvisa del treno chiuse violentemente la porta e Adriano ci mise la sicura. Per togliere di mezzo quell'odore nauseabondo gettò l'asciugamano sporco nello sportellino con l'orinale e intanto si chiedeva che cosa potesse essere quella mucillagine che insozzava il corridoio proprio e solo davanti al suo scompartimento, visto che quando era salito sicuramente non c'era, altrimenti lui non avrebbe potuto mancare di finirci dentro.
Accorgendosi di essere completamente gelato, accese il riscaldamento e s’infilò di nuovo sotto le coperte cercando di riprendere un po' di calore. Esitò per un attimo con la mano accanto all'interruttore, perché la sensazione di una presenza dentro la cabina non lo aveva lasciato e non se la sentiva di spegnere la luce. Optò per la penombra azzurrognola della lampadina notturna, ma era troppo agitato per riprendere sonno.
Come se non bastasse, il duetto di voci della cabina accanto era aumentato di intensità. La voce che sembrava maschile adesso gridava quasi mentre quella più sottile ansimava in un frenetico balbettio indistinto.
Adriano stava considerando l'opportunità di premere il campanello per chiamare il controllore, quando il treno s’imbucò dentro a una galleria e il rumore improvviso gli causò uno spavento che lo tirò su a sedere nel letto. Gli si erano tappate le orecchie, e per quanto deglutisse, non si sturavano. Fu allora che avvertì alcuni colpi sordi battuti contro la separazione tra i due scompartimenti e un gorgoglio strozzato che gli fece accapponare la pelle. Sembrava provenire dall'angolo buio della sua cabina, accanto alla porta.
La mano di Adriano volò agli interruttori, e con una sola mossa accese la luce e premette il pulsante di chiamata. Guardò inorridito nell'angolo che gemeva, ma non c'era nulla che potesse produrre quel suono. Allora si alzò dal letto e accostò l'orecchio alla paratia. Qualcosa di molle sembrava che venisse sbattuto con regolarità contro la sottile parete e graffiava e schiumava di rabbia impotente nella gola.
Adriano era ormai completamente terrorizzato.
Di nuovo si attaccò al campanello di chiamata, chiedendosi se funzionasse o se chi lo sentiva avesse il coraggio di uscire in quel corridoio dove, ormai ne era sicuro, qualcosa di schifoso si agitava e si dibatteva.
Il treno era intanto uscito dalla galleria e attraversava un punto particolarmente accidentato, perché Adriano si sentiva sballottare continuamente da ogni lato e non avrebbe saputo giudicare in quale direzione stessero muovendosi i vagoni.
Alzò la tendina, ma il vetro del finestrino era di un bianco lattiginoso e come uno specchio gli rimandò la sua immagine stralunata. Fuori soltanto nebbia e profili di cose.
Le urla nella cabina accanto erano adesso di una tale intensità che Adriano non dubitò più che potessero essere udite anche dagli altri passeggeri, e questo aumentò la sua sfiducia in un intervento risolutore dall'esterno; quel treno che viaggiava a folle velocità conteneva qualche mostruosità che nessuno poteva eliminare e che ora certamente avrebbe tentato di introdursi nella sua cabina. La voce doppia ormai urlava a squarciagola frasi in un idioma completamente sconosciuto e allo sciaguattare sul pavimento davanti alla sua porta si era aggiunto un brusio di vocine indistinte e colpi battuti sempre più violentemente.
Disperato, si appoggiò con tutto il suo peso contro la maniglia e cominciò a gridare, ma sapeva che era inutile, il coro bestiale che ormai si alzava da tutti i lati dello scompartimento, era accompagnato dal rumore repellente delle cose viscide che sbattevano sul legno nel tentativo di aprirsi un varco verso di lui. Adriano spingeva la porta pregando e singhiozzando, ma era troppo scosso nella mente per riuscire ad organizzare una difesa ragionata contro l'irragionevole. Troppo tardi capì che avrebbe dovuto tentare di arrivare alla maniglia del freno d’emergenza.
Quando si accorse che la porta stava per cedere tirò giù il vetro del finestrino e piangendo saltò nel vuoto.