Asunciòn,
4 Settembre 1981
Caro Emìlio,
ora che il terrore è finito, ora che il
gesto che non ho compiuto mi ha in qualche modo redento, ti scrivo
queste parole. Esse non vogliono essere altro che un racconto, un
ricordo, e come tutte le memorie, vengono scritte per se stessi e non
per quelli che le leggeranno; serviranno a chiarire i miei pensieri a
me, non a te.
Come avrai saputo dai giornali, Rosas
è morto suicida in carcere, credo impiccato in cella o non so bene
come (non che abbia una qualche importanza, la morte è sempre una
sola, in qualsiasi modo la si scelga), dopo aver saputo della
fucilazione di Ortega. L'assassino di Hernandez è nelle mani della
polizia, e finalmente quelli che ci sono sembrati i giorni più
lunghi della nostra storia, stanno riprendendo la loro consueta
durata.
Mi troveresti molto invecchiato
dall’ultima volta che ci vedemmo, e mi perdonerai se come capita ai
vecchi, nel ricordo mi succede sempre più frequentemente di
mescolare ciò che é stato con ciò che avrei voluto che fosse, ma
nello scrivere cercherò di non fare apparire quanto possa essere
confuso da una realtà che mi sembra travalicare i confini della mia
stessa fantasia.
Avrai certamente intuito che il
progetto sciagurato della nostra "liberazione" nacque molto
tempo fa, e che io dall’ufficio di Via Manaus ne seguivo sebbene
parzialmente, l’evoluzione, a quell'epoca sinceramente
preoccupato per quelli che avrebbero potuto essere i suoi sviluppi
futuri.
Avevo ragione nel ritenere che l'
U.T.A. sarebbe cresciuta e diventata una organizzazione terroristica
in piena regola, ma nulla avrebbe potuto farmi presagire la congerie
di coincidenze, errori, casualità che avrebbero portato alla
uccisione di Hernandez.
Ancora oggi, quando pronuncio questo
nome, provo una sorta di rispetto, generato - credo - dalla paura,
anche se di questa paura sono stato per molto tempo strumento
ferocemente inflessibile.
All'Ufficio Politico eravamo informati
delle attività dei terroristi, e diversi arresti di fiancheggiatori
ci suggerivano che il Movimento stava ormai prendendo decisioni che
lo avrebbero portato a definire obiettivi strategici precisi e
importanti, ma mai ci saremmo aspettati che la prima azione vera e
propria sarebbe stato il tentativo di eliminazione del nostro
Caudillo.
In quei giorni una riunione dell'esecutivo
clandestino in un covo di Via Conceptiòn, valutò la fattibilità
del progetto e decise l'arruolamento di chi avrebbe compiuto
l'azione: un killer esperto, pratico di armi ma non votato alla
causa, un uomo che non facesse parte dell'organizzazione e che di
essa non avrebbe conosciuto niente se non quell'unico scopo, in modo
da poterlo tagliare fuori in qualsiasi istante.
Il lavoro di preparazione sarebbe
stato lungo e minuzioso, ma la prudenza imponeva i suoi tempi.
Prima di ogni cosa occorreva cercare una
persona che avrebbe dovuto vivere in città per alcune settimane
senza dare nell'occhio, naturalmente in una casa in affitto perché
noi controllavamo alberghetti e pensioni.
Doveva avere l'accento giusto, la giusta
andatura, la giusta espressione, e questo faceva scartare gente
venuta da fuori; doveva essere talmente anonimo da passare
inosservato anche in un quartiere popolare dove tutti si conoscono
almeno di vista.
Sappiamo ora che occorsero molti mesi per
trovare l'individuo adatto, molto tempo per addestrarlo, molto danaro
per pagarlo e molta attenzione perché di tutto questo nulla
trapelasse all'esterno. La calma di quel periodo avrebbe dovuto
insospettirci, ma eravamo troppo sicuri della nostra forza, e al
contrario ci convincemmo di aver spezzato le reni a quel manipolo di
pazzi, e che le torture nelle cantine del vecchio palazzo di Via
Manaus erano state il rimedio sufficiente ad eliminare il male.
Ripensando oggi ad allora mi sembra
impossibile che non capissimo, ma cosa vuoi, forse in certi momenti
si vede solo ciò che si vuole vedere, e anche se la verità brilla
davanti ai tuoi occhi, la sua luce è così abbagliante da accecarti,
ed io allora ero cieco.
Ricordo che quando da ragazzo abitavo
in Calle Flores, mio padre mi portava spesso a casa di un suo vecchio
compagno di scuola, un uomo piccolo e pelato con degli spessi
occhiali montati in tartaruga, che aveva una stanza fumosa piena di
alambicchi colorati, storte, provette e con decine di fornelli
costantemente accesi su cui mormoravano bollitori che esalavano
vapori puzzolenti.
Quasi a volersi giustificare per un
rapporto così insolito, papà mi raccontava della vecchia amicizia
nata al tempo della scuola e che perdurava intatta negli anni,
nonostante quella benedetta fissazione per la Grande Opera.
Per me il laboratorio di quel
testardo, minuto e magro alchimista era una fonte di continue
meraviglie che non osavo sfiorare ma che mi attiravano
magneticamente, e quando mio padre, imbarazzato, cercava di scusarsi
per la mia eccessiva curiosità si sentiva rispondere con tono
ispirato o forse rassegnato: "Lascialo stare, i suoi occhi sono
diversi dai nostri e lui forse vede dove noi guardiamo soltanto.
Conoscere è sempre bene e ignorare è sempre male. Se proprio deve
toccare, lascialo fare: le coincidenze non esistono. Tutto quello che
facciamo è frutto di un disegno che ignoriamo, ma che certamente
esiste e ci trascende per un fine sconosciuto".
Mi ricordo di queste parole ora che ti
scrivo, Emìlio, perché nulla mi sembra più adatto a farti (farmi?)
giustificare i meccanismi che si misero in moto in quel punto della
Storia per raggiungere tale fine.
Fu trovato un appartamentino dalle parti
del mercato dei fiori che venne affittato sotto falso nome da una
terrorista e arredato con l'indispensabile per non incuriosire troppo
i vicini di casa. Il nome fittizio che venne scelto per il sicario è
per ragioni ovvie un nome comunissimo con un cognome altrettanto
scontato, ma che proprio per questa ragione è quello sopportato
dalla maggior parte dei nostri concittadini, e il caso (o forse una
volontà precisa) volle che un altro uomo, con lo stesso nome e lo
stesso cognome vivesse in quella strada, solo ad un isolato di
distanza dal primo.
Sappiamo poco di lui, ignoriamo quali
fossero le sue frustrate aspirazioni, e perché fosse ridotto ad
un’esistenza solitaria, di pura sussistenza, senza una donna o un
amico, incapace di uscire da una vita che quotidianamente lo
sospingeva da casa all'ufficio postale e viceversa, senza la speranza
che qualcosa potesse cambiare, e con il rimorso di aver tradito i
destini più grandi che suo padre, da buon militare, avrebbe preteso
da lui.
Viveva, Ortega, in un piccolo appartamento
che non conosceva la luce del sole, affogato com'era in Calle Rédon,
tra la sua collezione di giornali e i ritratti del padre rimasti dopo
la sua morte a controllare i suoi gesti e i suoi pensieri, ignorando
volutamente l'ingombrante presenza della vecchia pistola del
generale, che giaceva nel terzo cassetto della scrivania, e che di là
sembrava volergli rimproverare un presente pavido e senza gloria.
Oggi, dopo il suicidio di Rosas, immagino
che l'esistenza di quest'uomo non fosse stata trascurata
dall'organizzazione anzi, probabilmente fu studiata a lungo e infine
contribuì alla realizzazione del piano meno marginalmente di quanto
i terroristi stessi si aspettassero.
Non so se lesse sui suoi amati giornali,
fragile filtro della realtà esterna così cruda, dell'arresto
puramente casuale di Rosas durante una delle operazioni di routine,
ma so per certo che questa notizia non gli sfuggì. Forse lo
sorprese, come sorprese tutti del resto, che il capo del terrorismo
si fosse fatto trovare disarmato in un grande magazzino da due
guardie che lo avevano fermato per un normale controllo, senza
nemmeno averlo riconosciuto. E la meraviglia era il sentimento
dominante anche in Via Manaus, sebbene dissimulata dall'entusiasmo
per avere finalmente in mano il vertice dell'Organizzazione.
L'interrogatorio a cui fu sottoposto Rosas
fu certamente il più duro che io abbia mai disposto, e fu praticato
con l'intento di annullare la volontà e la personalità di un uomo
la cui volontà e personalità erano state una minaccia per tutto il
Sistema che noi rappresentavamo.
Non ti descriverò quali mezzi usammo per
costringerlo a parlare, ti basti sapere che in un momento di lucidità
pronunziò il nome di Ortega, ma ci diede l'indirizzo sbagliato,
quello dell'innocuo impiegato postale, presumibilmente nell'estremo
tentativo di riuscire a salvare il piano preparato con tanta
meticolosa cura.
E qui accade una cosa incredibile: per uno
di quegli errori che solo la polizia sa commettere, gli agenti della
sicurezza piombano invece nel posto giusto, e riescono a catturare
senza sparare un solo colpo il vero killer mentre si preparava a
cambiare nascondiglio avendo saputo dell'arresto di Rosas.
Avremmo voluto tenere nascosta tutta la
notizia, ma riuscimmo invece solo ad evitare che fossero pubblicate
fotografie dell'arrestato, e questo non impedì ai giornali di dare
grande risalto all'avvenimento al punto che per diversi giorni non
parlarono d'altro.
Non so immaginare cosa sia scattato
nella mente di Ortega nel leggere il proprio nome in prima pagina
sugli indispensabili quotidiani, accusato di essere il braccio di
un’organizzazione armata che tentava di distruggere un Sistema che
molto tempo prima aveva deciso la sua inutilità e lo aveva relegato
in un angolo di esistenza dal quale invidiare la vita degli altri
detestando la propria.
Probabilmente non scattò niente,
forse la decisione di occuparsi un posto nella Storia fu lunga e
sofferta, ma sicuramente il richiamo dell'acciaio lucido avvolto nel
morbido panno unto di olio, fu più forte delle sue paure e lo
sopraffece.
Forse la fucilazione dell'altro Ortega gli
annullò la volontà, e la sua anima fu preda della vecchia pistola
che decise per lui un futuro di sangue e di fragore.
Facilmente, l'impiegato modello, riuscì ad
ottenere un permesso ed un posto di prima fila dal quale applaudire
il passaggio del Caudillo alla Manifestaciòn Naciònal. Certo il
peso dell'arma gli divenne opprimente in quelle ore di attesa sotto
il sole, e il caldo gli confondeva la vista e i pensieri, ma la
volontà era lucida e il tremito che gli scuoteva le mani autentica
paura.
Ad un tratto si rese conto che stava
attraversando la folla insinuandosi rispettosamente tra uomo e uomo,
sempre scusandosi e chiedendo permesso, e capì che era in attesa
della fine del discorso, quando le guardie del corpo cominciano a
respirare di sollievo perché è andata bene un'altra volta. Si
sentiva sorridere, con lo sguardo fisso al palco in attesa di quello
che gli sembrò il momento adatto, e finalmente percepì il
voluminoso calcio d'avorio della rivoltella pesare nel palmo sudato
della sua mano destra. Ma qualcosa di questa tensione in qualche modo
trasparì anche all'esterno, perché io che ero sempre accanto a
Hernandez mi accorsi del sorriso idiota stampato sulla faccia bagnata
di quell'uomo e capii che qualcosa stava per accadere.
Questo é il momento più difficile
della mia narrazione perché tutto accadde molto in fretta, ma
purtroppo non abbastanza perché non potessi intervenire, eppure io,
proprio io non mossi un solo muscolo per salvare la vita del mio
presidente.
Ricordi, Emìlio, quante volte ci é
capitato di rivedere insieme il filmato al rallentatore
dell'assassinio di Lee Oswald da parte di Jack Ruby? Ebbene oggi gli
avvenimenti di quei minuti si svolgono nella mia memoria con la
stessa lenta ineluttabilità di quel film, di qualcosa che continuo a
cercare di risolvere prima che si compia, ma é solo un artificio
della mia mente; tutto è già successo e nulla può essere
modificato.
Rivedo Ortega estrarre la pistola mentre
continua a sorridere, vedo la testa di Hernandez spaccarsi come
un'anguria matura e sento gli schizzi del suo sangue sui miei
occhiali da sole, qualcuno che mi grida qualcosa nell'orecchio
sinistro e mi urta facendomi perdere l'equilibrio.
Milioni di volte ho rivissuto quei
momenti e ancora mi ripeto che è solo il suo destino che si è
compiuto, che sangue chiama sangue (e ripenso alle immonde cantine di
Via Manaus) ma so perfettamente che avevo tutto il tempo per impedire
quello che è successo e non l'ho fatto.
Il vecchio alchimista aveva torto,
nella vita i miei occhi hanno solo saputo guardare senza vedere, e
ancora oggi pur rigirandomi infinite volte indietro, io non so vedere
e non riesco a capire, ma di una cosa sono ormai sicuro.
E' vero che le coincidenze non
esistono. Ci capitano solo le cose che ci sono simili, non quelle che
meritiamo.
Troppe coincidenze in questa storia,
troppi giustizieri e giustiziati; forse Ortega ha voluto uccidere il
simbolo di un sistema che gli aveva negato di vivere, forse Rosas si
è suicidato perché pensava di aver fatto condannare un innocente,
ignorando il fortunato errore della polizia, e forse io,
vigliaccamente, ho lasciato uccidere Hernandez per giustiziarmi da
solo e giustificare con un atto mancato un’esistenza di gesti che
altri mi hanno fatto compiere, come una marionetta che uccida il suo
burattinaio, per vendicarsi di una vita trascorsa attaccato a dei
fili, recitando una commedia che non gli è mai piaciuta.
Caro Emilio, giunto a questa età
avrei desiderato avere più certezze, ma lo schianto di una pistola
mi ha voluto pieno di dubbi che mi opprimono la coscienza, e sui
quali avrò mio malgrado molto tempo per riflettere. Aspetto
tranquillo il processo e l'inutile condanna ad un ciclico ripetersi
di gesti e di giorni.
Tutto quello che è già successo
continuerà ad accadere.
con
affetto, tuo
Julio