Adesso era completamente solo.
Si appoggiò esausto al muro
salmastro restando in silenziosa attesa. Il corridoio era deserto,
rischiarato a tratti dalla luce tremolante di alcune torce fumose
infilate negli anelli di ferro alle pareti.
Respirava piano, giacché qualunque
rumore avesse prodotto, si sarebbe ripetuto innumerevoli volte
rotolando lungo le pareti del labirinto, dando un sicuro indizio
della sua presenza. Non si illudeva che non lo stessero cercando, ma
almeno avrebbe negato loro il vantaggio di coglierlo di sorpresa.
La ferita alla spalla gli doleva di
una pulsazione ritmica, sorda, e le gambe gli tremavano per la
stanchezza, ma sentiva che ormai l'uscita doveva essere vicina.
Era l'unico rimasto dell'esigua
spedizione di quell'anno. I suoi quattro compagni giacevano in
qualche corridoio di quel labirinto sotterraneo dove avevano
affrontato con atterrito coraggio le pattuglie degli Hongar.
Inutile pensare al sangue, agli
orrori di quella o quelle notti, (al chiuso aveva perso il senso del
tempo), adesso l'unica speranza era quella di riuscire ad arrivare al
salone con la scala di pietra prima che vi giungesse l'orda nemica.
Festnir, questo il suo nome, era
stato allevato sin da bambino per partecipare al Gioco. Tutta la sua
educazione era stata incentrata sull'uso delle armi e sulla lotta
fisica. Aveva imparato a maneggiare lo spadone a due mani come se si
trattasse di una forchetta, sapeva tirare con arco lungo e balestra,
usava lancia, bastone e pugnale come se fossero il naturale
prolungamento dei suoi arti, e tutto questo per quell'unico
combattimento rituale: il Grande Gioco.
Era il Gioco che garantiva la pace
secolare che durava nella sua terra.
Ogni dieci anni, dal tempo del Caos,
un manipolo di uomini selezionati per quel compito contendeva ad un
gruppo di Hongar il possesso del Talismano di Olun nel labirinto
sotterraneo che si estendeva sotto la Rocca di Korash.
Le due razze si erano combattute a
lungo nei secoli precedenti con sorti alterne, fino a che il Consesso
dei Saggi stabilì che per mantenere la pace si sarebbe tenuto ogni
dieci anni il Grande Gioco. Un gruppo di cinque uomini avrebbe
affrontato lo scontro con un identico numero di Hongar e i vincitori
avrebbero amministrato la giustizia nelle Terre del Confine, fino
all'incontro successivo. Per equiparare le forze, alla nazione
perdente era consentito di aggiungere un uomo in più ad ogni
combattimento. Quella volta Festnir e i suoi compagni si erano
battuti con un gruppo di venti Hongar, perché da più di un secolo
il Talismano era nel Tempio della Luce Cangiante, nella città umana
di Hamblin.
Gli Hongar erano una razza
semi-umanoide prolifica e crudele, di aspetto selvaggio e tozza
corporatura, con muscoli poderosi e curiose orecchie a punta, la cui
caratteristica principale era la violenza del comportamento.
Adoravano un dio cieco e idiota, il cui sacerdote era un individuo al
quale venivano mozzate braccia, gambe e lingua per simboleggiare
l'incomprensibilità del divino e l’immobilità dell'universo. Ogni
anno veniva portato in processione completamente avvolto in bende
imputridite e se le stagioni precedenti non erano state favorevoli ai
raccolti, veniva lapidato sulla piazza della capitale e sostituito da
un altro Hongar della stessa casta.
Era con questa razza che gli umani
dovevano condividere le Terre del Confine, ed era questa sorta di
bestie che, acquattata nell'ombra di qualche anfratto del
sotterraneo, aspettava Festnir per sottrargli il Talismano.
L'uomo controllò per l'ennesima
volta che il sacchetto di cuoio contenente la gemma fosse ancora
attaccato alla sua cintura e lentamente avanzò nel corridoio saturo
di umidità. Respirava a fatica e il dolore alla spalla si faceva
sempre più acuto, ma ora gli sembrava di sentire un alito di aria
fresca sul volto, segno che il salone di ingresso non poteva essere
lontano. La mappa che aveva tracciato insieme ai suoi compagni
addentrandosi nei corridoi era andata persa in uno degli scontri
sostenuti con gli avversari ed egli ora seguiva solo il suo istinto
per raggiungere l'esterno. Si stava chiedendo se fuori avrebbe
trovato il sole o il buio, quando gli giunse il rumore quasi
impercettibile del metallo che striscia conto la pietra. Si bloccò
all'istante trattenendo il fiato.
Il suono era cessato, ma proveniva,
ne era certo, da dietro l'angolo successivo. Infatti, dopo qualche
istante, un ombra avanzò lentamente sul pavimento all'incrocio dei
due corridoi e una testa dalle orecchie a punta si affacciò nella
luce delle fiaccole. Festnir non diede all'Hongar il tempo di
stupirsi, balzò con la spada alzata e con tutte le sue forze calò
un fendente che gli spiccò la testa dal collo.
L'essere cadde senza un gemito ad
inzuppare di sangue la sabbia e subito Festnir fu al centro
dell'incrocio con la spada alta pronto a colpire, ma il guerriero era
solo, forse perso anche lui in quell'intrico di roccia.
Di nuovo, con infinita cautela,
l'uomo si mosse verso la direzione da cui sembrava provenire il
soffio di aria fresca. Camminava con passo leggero, l'orecchio teso a
cogliere ogni minimo rumore, i muscoli contratti pronti a scattare.
Dopo l'ultimo sforzo la spalla sanguinava copiosamente e comprese che
stava lasciando una traccia nitida sui lastroni di pietra del
pavimento, ma era troppo stanco per preoccuparsene, sognava già di
essere fuori del labirinto, di poter finalmente lasciare il Collegio
d' Armi, di essere lavato e massaggiato da una di quelle ragazze che
aveva visto tante volte passeggiare oltre il muro di cinta, senza
l'incubo dello scontro che lo aveva attanagliato per tante notti. Che
altri giocatori provvedessero all'impresa, lui aveva già svolto il
suo compito.
Ormai sentiva l'aria pulita
asciugargli il sudore che gli attaccava addosso la tunica. Percepì
un vago odore di fiori notturni e comprese che fuori era buio,
sarebbe uscito nella notte, riemerso da quell'umido sepolcro e
tornato a nuova vita. Affrettò il passo.
Gli Hongar rimasti lo attendevano
nell'ultima stanza, quella con lo scalone di pietra.
Gli furono addosso tutti insieme
mulinando le spade e lanciando urla bestiali.
Festnir schivò i primi colpi e
abbatté un avversario, ma la punta di una lancia gli trafisse il
fianco e cadde su un ginocchio. Tentò vanamente di rimettersi in
piedi, ma nuovi colpi lo raggiunsero alla schiena. L'ultimo pensiero
che gli attraversò la mente fu che per sua colpa il Gioco era
perduto, e che il popolo del Caos avrebbe regnato sulle Terre del
Confine.
"Ho vinto di nuovo! "
gridò Massimo.
Mario lo guardò con indifferenza "
Per forza! -ribatté- tu ci giochi tutti i giorni con questo coso, ma
alla prossima partita prendo io i mostri e tu gli eroi, poi voglio
vedere come va a finire".
Si avvicinò allo schermo e spense
il computer.