domenica 10 agosto 2014

Finale di partita


Albeggiava ormai nel cielo delle Highlands e la luce che si diffondeva era sufficiente anche per un guidatore stanco.
La campagna all'intorno era ancora immersa nella bruma mattutina, solo qualche raro salice svettava sul grembiule bianco che avvolgeva il terreno.
Philip Farmer spense i fari dell'auto e ripassò mentalmente ancora una volta l'elenco delle provviste che aveva fatto, per essere sicuro di non aver dimenticato niente.
Era partito la sera prima da Londra con un'automobile presa a noleggio, zeppa di scatolette e di tutto quello che potesse servire ad un lungo soggiorno lontano da casa.
Quarantadue anni portati bene, scapolo e con una discreta tranquillità economica frutto dell'eredità paterna, fino a tre mesi prima non avrebbe potuto certo immaginare di trovarsi come adesso, quasi in fuga su una strada deserta e senza un'idea precisa di come sbrogliare la matassa che lo aveva avviluppato negli ultimi giorni.
Philip era impiegato presso la Società Cartografica Nazionale con mansioni di Rilevatore Disegnatore, lavoro che lo aveva spesso portato in giro per mezza Inghilterra e in particolare nel nord dell'isola, poiché si era occupato, fino all'estate precedente, dell'aspetto geomorfologico della costa nelle Ebridi. Era stato il ricordo di quest'ultimo viaggio a suggerirgli quella che ormai gli pareva l'unica scappatoia all'assurda situazione in cui si trovava.
La strada era completamente deserta, non incontrava nessuno da diverse ore. Si fermò ad un incrocio a consultare la cartina stradale, poi confortato dall'esame svoltò a sinistra e si avviò verso la costa.
Oltre alla geografia solo un'altra passione occupava la vita di Philip: gli scacchi. Aveva imparato praticamente da bambino e già da alcuni anni partecipava ai tornei scacchistici del suo Club. Era dotato di una discreta tecnica, supportata da una naturale capacità, tanto che spesso si era impegnato su più fronti in diverse partite giocate contemporaneamente per corrispondenza. Non era raro che vincesse, ma la partita che stava giocando attualmente era di un'assurdità inconcepibile.
Tutto era cominciato diverso tempo prima.
Una mattina di febbraio, uscendo da casa per recarsi in ufficio, aveva trovato nella cassetta delle lettere una busta colore verde chiaro, senza affrancatura, che conteneva soltanto un cartoncino su cui era scritto a stampatello il numero di una casella postale e una mossa d’apertura, il classico gambetto di re. Era una maniera insolita di proporre una partita, senza due righe di presentazione o l’accenno di un saluto, ma Philip aveva sospettato subito che dietro la sfida del cartoncino verde si nascondesse in realtà il suo vecchio amico Stanford, il quale si dava arie da amante del mistero e non era nuovo ad uscite di quel genere. Sorridendo decise di assecondare la stravaganza dell'amico e già in ufficio preparò un bigliettino con la sua apertura. Tornando a casa si fermò a comprare i francobolli e spedì il tutto all'indirizzo stabilito.
La risposta gli giunse tre giorni dopo su di un nuovo cartoncino dello stesso colore trovato tra la posta del mattino. Questa volta Philip preparò la rituale scacchiera con tutti i pezzi schierati, sulla quale sarebbe andato a disporre le mosse a mano a mano che il gioco procedeva.
All'inizio la partita sembrò mantenersi in equilibrio, i giocatori si studiavano a vicenda, ma invano Philip cercò di trovare nelle mosse dell'avversario i caratteri riconoscibilissimi dello stile di Stanford.
Sul finire del mese di marzo si trovava in vantaggio di tre pedoni sull'avversario, quando ricevette una sua telefonata. Quotidiane inezie occuparono la conversazione senza che nessuno dei due, come per tacito accordo, facesse cenno alla partita finché Philip, non resistendo alla tentazione di vantarsi della sua indiscussa superiorità tattica, alluse vagamente all'argomento cercando di suscitare la reazione dell'amico. Stanford sembrò non capire e quando Philip fu più esplicito, cadde completamente dalle nuvole dichiarando con assoluta buona fede la sua estraneità alla faccenda.
Philip rimase perplesso; il tono del suo vecchio amico era assolutamente sincero ed egli sapeva bene che invece la sua reazione a situazioni analoghe in altre occasioni era stata diversa. In realtà Stanford faceva tanto spesso il misterioso proprio perché era assolutamente incapace di mentire.
La mattina seguente trovò come al solito la busta verde con la mossa dell'avversario tra la corrispondenza, ma questa volta la guardò in modo diverso. Non era più il gioco di un amico che gli veniva recapitato, ma un attacco portato fin dentro casa sua da uno sconosciuto che non intendeva rivelarsi. Questa considerazione gli procurò un certo disagio, che aumentò quando si accorse che la mossa contenuta nel biglietto lo privava di un pedone ad opera di un cavallo nemico. Capì di aver sottovalutato le capacità strategiche dell'altro giocatore e che la perdita di quel pezzo preludeva ad un assalto più complesso dal quale non sarebbe stato facile difendersi.
Dedicò due intere serate allo studio della contromossa, ma la sua mente era turbata anche per un altro motivo. Un avvenimento raccapricciante aveva sconvolto il caseggiato quella stessa mattina. La figlia della sua vicina di casa, un’esile bambina dai grandi occhi celesti, era stata travolta in strada dalla corsa sfrenata di un cavallo imbizzarrito che il proprietario non riusciva a tenere. Nella primavera del 1931 erano ancora molti i londinesi che utilizzavano il cavallo come mezzo di trasporto, anche se un'ordinanza civica ne proibiva la circolazione nel centro della città, riservandone l'utilizzo alle poche carrozze che ancora si vedevano in giro.
Il giorno dopo spedì al consueto indirizzo dell'ufficio postale la sua mossa di risposta, che però sapeva già fiacca e d’attesa. Infatti, puntualmente la settimana successiva, gli arrivò la contromossa che gli sottraeva un altro pedone.
Philip tentò di convincersi che in quella sfida non vi era nulla di strano se non l'anonimato del suo avversario, e che la situazione si ripeteva identica a tante altre partite giocate in passato, ma non riusciva a superare la sensazione di estraneità e di minaccia che gli davano quei cartoncini verdi.
S’immerse più a fondo nel suo lavoro, ma di tanto in tanto il pensiero della scacchiera che lo attendeva a casa, s’insinuava tra le sue occupazioni provocandogli attimi di profonda angoscia. A niente gli servì pensare che molto semplicemente, avrebbe potuto smettere di giocare. Gli sarebbe bastato trovare una scusa qualsiasi per non continuare la partita, ma sebbene non sapesse a cosa attribuire quell'impressione, tuttavia intuiva che non gli sarebbe stato consentito un ritiro.
In una profumata sera di aprile il suo nemico lo costrinse ad uno scambio che gli costò un alfiere, e da quel momento la partita sembrò bloccarsi in una situazione di stallo.
Ma l'animo di Philip in quei giorni era oppresso da ben altra perdita. Il suo vecchio amico Stanford aveva improvvisamente deciso di liberarsi di se stesso volando giù da una finestra del suo ufficio in Blooming Street. L'incomprensibile suicidio rimase un mistero. Nessuno aveva mai visto Stanford allegro come in quelle ultime settimane. Il lavoro andava benissimo e la sua Compagnia aveva appena inaugurato una nuova filiale, non aveva avuto discussioni in famiglia e soprattutto non lasciò nemmeno una parola d’addio che potesse chiarire i motivi della tragica decisione.
Philip era completamente sconvolto dalla fine dell'amico, e non riusciva a farsi una ragione del perché questi non lo avesse cercato per chiedergli aiuto.
Ottenne un permesso in ufficio e restò a casa per alcuni giorni.
Fu proprio allora, che per distrarsi da quei pensieri, decise di affrontare in modo definitivo la partita che si era arenata. S’impegnò nello studio di tutte le varianti possibili alle mosse dell'avversario con un accanimento che non aveva mai provato prima, e tuttavia non riusciva a venirne a capo.
Un pomeriggio, mentre cercava il suggerimento risolutivo tra i suoi manuali di scacchistica, quasi a dimostrare che nella vita dell'uomo niente é lasciato al caso, lo sguardo gli cadde su di un vecchio tomo rilegato in marocchino, che non ricordava di possedere. Era uno dei volumi lasciatigli in eredità dal padre, che lui non aveva mai aperto: "L' ARS MAGNA " di Raimondo Lullo.
Cominciò a sfogliarlo con curiosità accorgendosi solo in quell'occasione che conteneva bellissime illustrazioni a colori e delicate miniature all'inizio di ogni paragrafo.
Sul frontespizio del terzo capitolo lesse la frase di Ermete Trismegisto che enunciava il principio di correlazione tra macrocosmo e microcosmo al quale si era ispirata tutta la dottrina ermetica.
"Ciò che é in alto é uguale a ciò che é in basso", recitava il capoverso.
Sembrava una banalità da manualetto di alchimia, ma davanti agli occhi di Philip sembrò spalancarsi una finestra.
In quell'istante fu folgorato dalla corrispondenza dei fatti che avvenivano nella sua vita, con le mosse che andavano svolgendosi sulla scacchiera. Si precipitò al cassetto dove teneva in ordine le cartoline verdi speditegli dall'avversario e cominciò ad inserirle tra le pagine del suo diario in modo da ricostruire nella maniera più precisa possibile il calendario degli ultimi due mesi.
Alla fine il quaderno era pieno dei foglietti delle sue mosse e di quelle del nemico.
Trovò anche troppe coincidenze.
Iniziò con la morte della bambina che abitava nel suo palazzo, travolta da un cavallo proprio il giorno nel quale lui aveva perso un pedone, catturatogli da quel pezzo. Continuò con il crollo della fabbrica abbandonata in fondo alla strada dove abitava, che aveva seppellito il vecchio custode, esattamente la mattina in cui aveva ricevuto un cartoncino che gli aveva fatto perdere un alfiere ad opera di una torre avversaria.
Andando avanti in quel modo ricostruì tutta una serie di morti apparentemente casuali, ma che costellavano le sue ultime settimane di una miriade di gocce di sangue.
Ed ora il suicidio incomprensibile di Stanford!
La mente di Philip rifiutava di accettare quell'idea pazzesca, ma la realtà era una serie di impossibili coincidenze colore verde chiaro inserite tra le pagine di un diario.
All'improvviso, si rese conto con angoscia che l'orrore poteva non essere limitato alle mosse altrui e che le sue decisioni determinavano le sorti del gioco al pari di quelle dell'avversario.
Tentò di calmarsi, ragionando che se il suo nemico disponeva di possibilità omicide di tale fatta, fortunatamente non si poteva dire altrettanto di lui, ma pensò anche che se il prezzo del gioco era la vita, nulla impediva di immaginare che qualcuno si prendesse l'onere di agire anche per suo conto, magari solo per pareggiare la posta.
Andò a rovistare nello sgabuzzino alla ricerca delle copie di vecchi quotidiani e ammucchiatele sul tavolo, cominciò a sfogliarle trepidamente, cercando tra le notizie più trascurabili, in mezzo ai trafiletti più insignificanti le prove di quella trama mostruosa che, ora lo vedeva chiaramente, era stata ordita contro di lui e che utilizzava per i suoi incomprensibili fini, la vita di persone qualunque, come fossero i pezzi di un gioco di scacchi.
Alla fine di quella nottata, aveva ricostruito la partita mossa per mossa, e si era convinto di essersi involontariamente macchiato del sangue di vite innocenti e sconosciute.
Fatalmente comprese che qualsiasi difesa era improponibile, giacché l'eliminazione di un pezzo avversario, avrebbe determinato altrove, la morte di un uomo.
Il giorno che aveva sottratto un alfiere all'altro giocatore, un ufficiale dei Dragoni dell'Impero era stato trovato ucciso nel suo alloggio della Scuola Cadetti di Westminister. Una pallottola gli aveva trapassato il cranio entrando dalla nuca e uscendo da un occhio. Si pensò ad un suicidio, anche se piuttosto singolare, vista la posizione che avrebbe dovuto assumere l'uomo per potersi sparare a quel modo, ma quella fu la versione ufficiale dei fatti e la cosa venne messa rapidamente a tacere. Philip allora era rimasto incuriosito dalla notizia, ma adesso che gli sembrava di intravedere com’erano andate realmente le cose era assolutamente inorridito.
Ma moltissime altre notizie avrebbero potuto avere un legame con quella diabolica partita, e Philip non sempre riusciva ad individuare quella sicuramente implicata. Come poteva essere certo che l'anziana turista trovata con il collo spezzato in una delle stanze della Torre di Londra, non fosse stata uccisa perché lui aveva eliminato un pedone avversario con una torre?
Più volte lo assalì il fondato dubbio che quell’immensa mole di coincidenze fosse frutto solo della sua immaginazione. Pensò che tutti gli avvenimenti del mondo sono in qualche modo legati l'uno con l'altro e che questo vincolo, segreto agli uomini, può stringere tra loro anche persone ignare distanti miglia e miglia. Ogni gesto che compiamo può avere conseguenze banali o terribili, ma ridurre l'universo ad una mera concatenazione di cause ed effetti é operazione riduttiva quanto inutile. Sostenere che tutto influisce su tutto, vuol dire negare il principio della casualità. Pensò alle dottrine filosofiche che insegnano che ogni avvenimento é la somma d’infinite cause precedenti e di come questi insegnamenti potessero pericolosamente sgravare l'uomo dalla responsabilità delle proprie azioni, o al contrario legarlo al punto da impedirgli qualsiasi decisione.
Il libro che aveva trovato insegnava che persino la posizione degli astri nel cielo influiva su tutta la vita del cosmo e che tutto é legato a tutto più strettamente di quanto possiamo immaginare.     
A questo ed altro pensò Philip Farmer quella notte, ma nessun ragionamento gli fu di conforto. Chi avrebbe potuto convincerlo ormai di non essere una delle infinite cause che avevano in qualche modo contribuito alla morte del suo amico Stanford?
Scartò quasi subito la possibilità di rivolgersi alla polizia per raccontare quello che gli accadeva, immaginando che nessun investigatore avrebbe preso in considerazione i suoi argomenti, ma certo non poteva continuare il gioco pensando che una sua mossa avrebbe potuto determinare l'uccisione di un innocente.
Capì che la partita però era ormai troppo compromessa a suo svantaggio, e temette che rinunciare a difendersi avrebbe significato uno scacco in poche mosse, così decise per una strategia difensiva, nella quale avrebbe cercato di non perdere, ma nemmeno avrebbe attaccato.
Questa situazione si protrasse ancora per qualche settimana, e gli ci volle tutta la sua abilità ed esperienza per arrivare alla fine di Maggio senza aver perso nessun altro pezzo e senza averne sottratti all'avversario.
Ma si accorgeva che il cerchio si andava chiudendo.
Il suo re era stretto d'assedio dai pezzi nemici e qualsiasi altra mossa ormai non avrebbe potuto evitare uno scambio. Negli ultimi tre giorni aveva cercato di concentrare tutti i suoi sforzi nel tentativo di trovare una soluzione razionale ad un problema assurdo, ma sentiva che i nervi stavano per cedergli, e quando capì che lo scacco matto non era ulteriormente differibile decise di fuggire. Si procurò un'auto a noleggio dichiarando un nome fasullo e pagandola anticipatamente in contanti, la stipò di tutto quanto gli parve utile ad un soggiorno lungo e disagiato e partì nel bel mezzo della notte. Aveva deciso di rifugiarsi nel posto più lontano da Londra che conoscesse: Dornoch, un minuscolo paesino di pescatori di fronte alle isole Shetland.
Aveva viaggiato tutta la notte e adesso, la piccola cittadina era davanti a lui, emergeva lentamente dalla nebbia che si andava diradando.
In paese, cercò subito di Eddie Munters, il guardiano del faro che sorgeva sull'isolotto alla punta di Tarbat Ness. Lo aveva conosciuto in uno dei suoi viaggi e venne accolto con gran cordialità. Spiegò che aveva bisogno di rimanere completamente isolato per un lavoro importantissimo che stava svolgendo, e alle obiezioni dell'anziano pescatore, lo tranquillizzò mostrandogli il contenuto del bagagliaio dell'auto e assicurandogli che se la sarebbe cavata benissimo anche senza poter comunicare con nessuno. Ricordava che il faro non era presidiato fino alla buona stagione, e proprio per questo lo aveva scelto, la sola cortesia che gli chiedeva era quella di trasportarlo fin lì e di non fare parola con nessuno della sua presenza.
Scendendo per la strada che conduceva al porto, il vecchio si fermò ad annusare l'aria con il naso all'insù, come un cane.
Philip lo guardò con aria interrogativa.
- Odore di pioggia!- spiegò lui.
Infatti, nonostante il mare fosse soltanto increspato, una riga nera all'orizzonte la diceva lunga su quello che sarebbe stato il tempo per i giorni successivi.
- Tanto meglio - pensò Philip - se volevo essere irraggiungibile ci sono riuscito!
Caricarono la barca con le provviste e dopo una mezz'ora di navigazione giunsero all'attracco dell'isolotto. Ebbero qualche difficoltà a sbarcare perché le onde già piuttosto alte spingevano la barca contro le tavole di legno del pontile, ma infine stanco e bagnato, Philip vide la porta di ferro schiudersi sui primi gradini di un'angusta e ripida scalinata.
L'interno del faro era squallidamente disadorno proprio come se lo era immaginato. In un unico ambiente circolare erano presenti soggiorno, salotto e stanza da letto, il tutto costituito da un tavolo di legno con quattro sedie e una branda con un materasso che puzzava di muffa.
Ancora una volta il vecchio protestò che non poteva abbandonare un signore come lui in quelle condizioni, con una burrasca in arrivo, e che se fosse voluto tornare a terra non avrebbe potuto, perché con il mare grosso neanche un pazzo si sarebbe avventurato tra gli scogli a rischiare la vita facendosi stracciare lo scafo per andare a prenderlo, ma Philip si mostrò irremovibile e lo convinse a lasciarlo solo. L'uomo non insistette oltre, anche perché il mare andava montando. Di lì a poco, infatti, si scatenò un violento temporale.
Lentamente Philip disfece il suo bagaglio e ancora una volta collocò i pezzi sulla scacchiera nella posizione che ormai conosceva a memoria. Accanto, posò la busta che aveva trovato nella cassetta della posta il mattino precedente, a Londra.
Così lontano di casa e con il rumore del mare in tempesta che batteva contro le pareti del faro, gli sembrava che tutto quanto fosse accaduto nei mesi precedenti fosse solo un incubo partorito dalla sua mente, ma la presenza della lettera accanto alla scacchiera lo riportava alla realtà.
Allora cominciò a convincersi di aver sognato tutto, che la morte di Stanford lo aveva sconvolto, che le parole di quel maledetto libro non significavano nulla e che probabilmente aveva affrontato quell'inutile viaggio solo perché era un idiota matricolato.
L'unico risultato apprezzabile di quella follia era che adesso si trovava perduto su di uno scoglio in mezzo ad un fortunale, senza avere alcuna possibilità di poter tornare a terra e senza che alcuno potesse raggiungerlo almeno per altri quattro giorni.
Il mare che batteva incessantemente contro lo scoglio tuttavia non era il miglior calmante per i suoi nervi, e Philip andò a sdraiarsi sul giaciglio umido nel tentativo di prendere sonno. Stanco delle ore passate al volante, si addormentò pesantemente. Durante la notte la tempesta assunse la violenza di un uragano, il mare scagliava contro il faro masse d'acqua gigantesche che s’infrangevano sulla pietra con un rumore sordo che percorreva l'intera struttura della torre. Philip era immerso nel sogno di un mare quadrato come una scacchiera, sul quale scivolavano i pezzi di un gioco mortale.
Ad un colpo più forte degli altri si svegliò in preda all'angoscia più profonda. Dall'unica finestra poteva vedere la luce del faro sciabolare sull'acqua nera illuminando le creste delle onde, e rifrangersi nella nebbiolina degli spruzzi che saliva fino a lui. Rimase a guardare allucinato il mare in tempesta, in attesa della luce liberatrice del giorno, ma come spesso accade, gli incubi peggiori sono quelli che si fanno da svegli.
Un'alba grigia e fredda lo trovò seduto al tavolo, fissava la scacchiera e la busta chiusa.
La notte era passata, ma il mare infuriato continuava a schiaffeggiare le pareti del faro con immutata violenza.
Si sentiva spossato dalle ore d’insonnia, e con lentezza si accinse ad aprire la lettera nella quale sapeva esserci un cartoncino verde con l'inevitabile mossa. La solitudine non gli alleviava il peso dell'indifferibile sconfitta e con rassegnazione pose il pezzo nella casella destinata. Lo scacco matto era ormai sotto i suoi occhi, nulla avrebbe potuto modificarlo. Posò il cartoncino sul tavolo ma nel fare quel gesto si accorse che sul retro del biglietto era stata vergata con inchiostro rosso una frase.
Era tratta dall'"ARS MAGNA " di Raimondo Lullo, che parafrasando l'Ecclesiaste diceva: " Esiste un tempo per ogni cosa, anche un tempo in cui i tempi si congiungono".
Fu in quell'istante che tra il fragore delle onde udì distintamente battere alla porta.



domenica 5 gennaio 2014

El Pirata

Questa è una storia vera, che io semplicemente riporto.

Con presunzione, mi piace pensare che sarebbe potuta piacere a J.L.B.


La prima parte di questo racconto è stata immaginata da un aspirante scrittore a Montevideo nei primi anni del '900.
Ne è autore un tale Ernesto Guerreri, figlio di emigrati italiani in Uruguay, che sogna di diventare un autore di successo. Dopo gli studi classici, perseguendo questa sciagurata ambizione si iscrive alla facoltà di lettere dell'università di Montevideo. E' un ragazzo brillante, dal facile eloquio e dal portafogli sempre gonfio. Suo padre ha fatto fortuna insieme ai fratelli con una ditta di importazione di caffè, e non lesina sul danaro purché suo figlio coroni le proprie aspirazioni.
Negli anni in cui studia all'ateneo, Ernesto si iscrive ad un circolo letterario della città, partecipando con entusiasmo insieme con gli altri studenti, alla redazione di un foglio nel quale vengono pubblicate le opere degli associati. E' un avido lettore di racconti di spionaggio, lo affascinano le trame misteriose e i racconti polizieschi, predilige quelli di Arthur Conan Doyle.
Al termine di quella esperienza e degli studi, la sua fantasia partorisce un romanzo dal titolo “El Pirata”, ambientato in una capitale di fantasia che ricorda molto Lisbona, dove si fronteggiano un pericoloso rivoluzionario e il capo dei servizi segreti, suo dichiarato nemico.
Di costui sappiamo che è un uomo rude e spietato capace di farsi strada fra i ranghi della polizia in modo deciso, fino a raggiungere l'apice della carriera diventando il capo del braccio repressivo del regime. E' un personaggio quasi leggendario questo Ferreira, temuto e rispettato dai suoi sottoposti, che conoscono bene la sua mania per la segretezza, pari solo all'altra sua passione, la musica lirica. Ha costituito un dipartimento trasversale all'interno della polizia segreta, strutturato in forma rigidamente piramidale. Gli uomini che lo compongono rispondono solo a lui, non si conoscono fra loro, e nessuno di essi ha mai visto la sua faccia. Gli ordini vengono trasmessi esclusivamente per via telefonica o tramite messaggi scritti.
L'assoluta segretezza è per lui garanzia dell'impenetrabilità del sistema.
Guerreri gli contrappone come antagonista Miguel Serrano, un uomo semplice, una specie di giustiziere di campagna che si oppone alla dittatura. Anche lui è una leggenda fra la povera gente, lo chiamano “El Pirata”. Si dice che con il suo coltello abbia ucciso sei uomini. Ha il viso attraversato da una profonda cicatrice causata dalla rasoiata di una donna. Tutta la prima parte del libro è dedicata alla descrizione e alla storia dell'eroe proletario. Egli partirà dalle campagne soggiogate dal tallone di ferro della tirannia e ridotte alla miseria dalle razzie del regime, per giungere nella capitale ed assassinare il dittatore.
La polizia però, avvertita da un delatore, è già in allerta.
Lo catturano addirittura alla stazione ferroviaria appena sceso dal treno, e lo trattengono per cinque giorni.
In uno di questi, a condurre un interrogatorio particolarmente feroce, è proprio Ferreira che desidera accertarsi di persona della pericolosità dell'individuo. Serrano è condotto nello scantinato della questura, viene bendato e fatto sedere in una cella vuota, con le mani legate dietro alla schiena. Alla luce incerta dell'unica lampadina riceve i primi colpi che gli arrivano improvvisi e violenti sulla faccia, alle reni, nei testicoli. Le urla del prigioniero sono coperte da un grammofono acceso che suona a tutto volume alcune arie del “Barbiere di Siviglia” di Rossini. Il suo torturatore le canticchia fra i denti mentre e gli gira attorno colpendolo ancora, e poi ancora. Vuole sapere di piani, di trame ancora inesistenti, vuole conoscere particolari di un' idea che si è solo manifestata, ma non ancora definita nella mente di Serrano. Un pugno più violento di altri, lo fa cadere dalla sedia, e gli scosta per un attimo la benda dagli occhi. In quell'istante, l'immagine del volto di Ferreira si imprime indelebilmente sulla retina e nella mente di Serrano.
Al termine dell'interrogatorio senza esito, l'uomo viene riportato in cella pesto e sanguinante, a languire sul pavimento bagnato del suo sangue e della sua orina.
Quando viene rilasciato, Serrano si dà alla latitanza, ma uno degli uomini della polizia segreta viene immediatamente messo sulle sue tracce. Ferreira ha capito che ancora non esiste il piano preciso per un attentato, ma non è del tutto convinto che il giovane rinunci ai suoi propositi, così stupidamente vantati in pubblico al suo paese. All'agente scelto Santiago Cruz perviene dunque una nota di servizio che gli ordina di pedinare Serrano senza lasciarlo un attimo, ma senza assolutamente intervenire, riferendo tutte le sere per iscritto sulle sue mosse. La comunicazione deve avvenire esclusivamente tramite rapporti inviati ad una casella postale, la segretezza dev'essere assoluta.
L'autore del romanzo ci rivela di come i propositi del “Pirata” siano stati in parte modificati dall'interrogatorio a cui è stato sottoposto. Il fine ultimo è sempre la preparazione dell'attentato al dittatore, ma l'altro obiettivo adesso è rintracciare e vendicarsi del poliziotto che lo ha picchiato a sangue.
E qui la storia prende una sorprendente accelerazione. Dopo alcuni giorni trascorsi in città a riprendersi dal pestaggio, in poche pagine vediamo l'agente Cruz seguire Serrano in una serata di pioggia fino al teatro dell'Opera. Va in scena la prima del “Barbiere di Siviglia”. Il ragazzo si aggira fra la folla elegante, come se cercasse un contatto, qualcuno che conosce. All'improvviso il diligente poliziotto lo vede accostarsi ad un'edicola dove un uomo alto, con un cappotto di cammello sta acquistando dei sigari cubani. Il un lampo, Serrano estrae una lunga lama dalla manica della giacca e la infila una, due, tre volte nel fianco dell'uomo che cade in terra in un lago di sangue.
Nella confusione che segue, l'accoltellatore si allontana, e il ferito spirerà sorretto dal poliziotto, senza che questi abbia modo di riconoscere in lui il suo diretto superiore. Ferreira muore dunque per eccesso di prudenza, quella segretezza assoluta che gli consentiva di andare a teatro senza scorta, non ha impedito bensì favorito il proprio assassinio e quello dell'attentato che avverrà.
La morale che sembrerebbe essere sottesa dall'autore è quella della ineluttabilità del destino, che nessuna mossa e nessuna difesa può sviare.
Il romanzo fu pubblicato a spese dell'autore dalla casa editrice SUR a Montevideo nel 1936, oserei dire improvvidamente, visto che si era nel pieno della dittatura di Gabriel Terra. Un romanzo che parlava dell' attentato ad un tiranno, in quei momenti non sembrò un miracolo di tempismo. Dire che ebbe un'accoglienza “tiepida” è solo un pietoso eufemismo per non dire che fu totalmente ignorato da pubblico e critica.
Forse anche sotto la pressione dei suoi preoccupati familiari, l'aspirante scrittore Ernesto Guerreri decise di orientare più convenientemente il suo futuro nel commercio del caffè.

Qui finisce la prima parte della nostra storia.

Per proseguire, dobbiamo fare un salto nel tempo di almeno settanta anni. Infatti la seconda parte di questo racconto si svolge ai giorni nostri, in località molto più vicine.
La riporto così come venne raccontata sulle pagine del quotidiano romano “Il Messaggero”, in quelle settimane.
Il 12 aprile del 2009, sulla spiaggia ancora deserta di Ostia, viene ritrovato cadavere un certo Attilio Burri, ucciso con due colpi di pistola al torace.
La cosa non sorprende i carabinieri della stazione locale, in quanto Burri è noto alle forze dell'ordine per essere un “cravattaro” nome che viene dato a Roma agli strozzini. E' un uomo odioso e volgare, capace di violenti scatti di rabbia. Nella casa dove viveva vengono ritrovati, occultati in un tramezzo, più di due milioni di euro in banconote, cambiali e assegni post-datati. Le indagini naturalmente si indirizzano subito verso i debitori di Burri, che avevano interesse ad eliminarlo e che sono i firmatari dei titoli di pagamento. L'uomo ha una figlia di nome Assunta, che tre anni prima ha sposato un giovane spiantato della zona, tale Giacomo Crozza. E' il tipico bullo di periferia, forte con i deboli e debole con i forti. Cresciuto senza padre, ha perso anche sua mamma da qualche anno, e si arrangia rubacchiando in giro e forse spacciando un po' di droga. La ragazza rimane incinta del giovane che non vuole saperne di sposarla, ma che il Burri a suo modo mette inderogabilmente davanti alle proprie responsabilità. Purtroppo, un mese dopo il matrimonio, Assunta ha un aborto spontaneo e perde il bambino. I due vanno a vivere in un appartamento non distante dalla villetta del suocero. Crozza, che non trova o non cerca occupazione, non è in grado di pagare la ristrutturazione della casa. Contrae quindi anch'egli un debito col suocero, per ripagare il quale si lascia progressivamente cooptare nell'attività di strozzinaggio. Il giovane ha il compito di riscuotere il danaro dalle vittime dell'usura, ma anche in questo non mostra grandi capacità. Da sua moglie e dalla sua famiglia acquisita, viene ritenuto uno smidollato privo di qualunque dignità. Sfoga le sue frustrazioni familiari sul “lavoro” e al bar, dove al contrario, si vanta molto delle sue doti persuasive.
Agli inizi del 2009, Burri lo incarica di perseguitare con particolare insistenza Mario De Turris, un debitore di Ostia che deve molto danaro. Questi è una persona anziana, che è dovuto ricorrere allo strozzino per poter curare la moglie affetta da una grave patologia, e che nonostante le cure è deceduta. L'uomo sostiene di non essere in grado di pagare, dunque chiede a Crozza di organizzare un incontro con il suocero nei pressi di un lido balneare, per rinegoziare un accordo sugli interessi del suo debito.
Burri, che è un sessantacinquenne conosciuto per la sua forza fisica e il pessimo carattere, non teme minimamente che le cose possano mettersi male con l'anziano pensionato. Ad ogni buon conto però, incarica il genero di accompagnarlo. Ma Giacomo Crozza, che ha intuìto l'epilogo dell'incontro (o forse si è accordato con l'omicida), trova un'occasione per presentarsi in ritardo all'appuntamento. Osservatore discreto e nascosto, scorge dal retro delle cabine, il De Turris, che dopo un violento alterco, estrae una vecchia pistola a tamburo e spara per due volte a Burri. In un solo momento quindi, Crozza si è liberato del suocero a cui deve soldi, ed è anche in grado di ricattare l'assassino con una possibile testimonianza. Le sue aspettative però vengono rapidamente frustrate, in quanto dopo meno di una settimana dal delitto, il De Turris si reca alla caserma dei carabinieri per confessare l'omicidio e consegnare l'arma.

Fin qui la cronaca dei fatti.

Per completare il quadro di questi due avvenimenti apparentemente slegati fra loro, devo precisare che il nonno materno di Giacomo Crozza molti anni prima era emigrato in Uruguay e si era stabilito a Montevideo, dove lavorava nell'azienda di famiglia, un import-export di caffè.
Si chiamava Ernesto Guerreri, e fu autore di un romanzo misconosciuto dal titolo “El Pirata”, esattamente come “Il Pirata” è il nome dello stabilimento balneare dov'è avvenuto l'omicidio Burri.
Forse Giacomo Crozza (che in dialetto significa croce) non ha lasciato uccidere suo suocero per soldi come ha potuto credere, forse in qualche modo che ci è sconosciuto, ha semplicemente interpretato il ruolo del suo omonimo Santiago Cruz (Giacomo Croce), nel copione scritto da suo nonno settanta anni prima.