Albeggiava ormai nel cielo delle
Highlands e la luce che si diffondeva era sufficiente anche per un
guidatore stanco.
La campagna all'intorno era ancora
immersa nella bruma mattutina, solo qualche raro salice svettava sul
grembiule bianco che avvolgeva il terreno.
Philip Farmer spense i fari
dell'auto e ripassò mentalmente ancora una volta l'elenco delle
provviste che aveva fatto, per essere sicuro di non aver dimenticato
niente.
Era partito la sera prima da Londra
con un'automobile presa a noleggio, zeppa di scatolette e di tutto
quello che potesse servire ad un lungo soggiorno lontano da casa.
Quarantadue anni portati bene,
scapolo e con una discreta tranquillità economica frutto
dell'eredità paterna, fino a tre mesi prima non avrebbe potuto certo
immaginare di trovarsi come adesso, quasi in fuga su una strada
deserta e senza un'idea precisa di come sbrogliare la matassa che lo
aveva avviluppato negli ultimi giorni.
Philip era impiegato presso la
Società Cartografica Nazionale con mansioni di Rilevatore
Disegnatore, lavoro che lo aveva spesso portato in giro per mezza
Inghilterra e in particolare nel nord dell'isola, poiché si era
occupato, fino all'estate precedente, dell'aspetto geomorfologico
della costa nelle Ebridi. Era stato il ricordo di quest'ultimo
viaggio a suggerirgli quella che ormai gli pareva l'unica scappatoia
all'assurda situazione in cui si trovava.
La strada era completamente deserta,
non incontrava nessuno da diverse ore. Si fermò ad un incrocio a
consultare la cartina stradale, poi confortato dall'esame svoltò a
sinistra e si avviò verso la costa.
Oltre alla geografia solo un'altra
passione occupava la vita di Philip: gli scacchi. Aveva imparato
praticamente da bambino e già da alcuni anni partecipava ai tornei
scacchistici del suo Club. Era dotato di una discreta tecnica,
supportata da una naturale capacità, tanto che spesso si era
impegnato su più fronti in diverse partite giocate
contemporaneamente per corrispondenza. Non era raro che vincesse, ma
la partita che stava giocando attualmente era di un'assurdità
inconcepibile.
Tutto era cominciato diverso tempo
prima.
Una mattina di febbraio, uscendo da
casa per recarsi in ufficio, aveva trovato nella cassetta delle
lettere una busta colore verde chiaro, senza affrancatura, che
conteneva soltanto un cartoncino su cui era scritto a stampatello il
numero di una casella postale e una mossa d’apertura, il classico
gambetto di re. Era una maniera insolita di proporre una partita,
senza due righe di presentazione o l’accenno di un saluto, ma
Philip aveva sospettato subito che dietro la sfida del cartoncino
verde si nascondesse in realtà il suo vecchio amico Stanford, il
quale si dava arie da amante del mistero e non era nuovo ad uscite di
quel genere. Sorridendo decise di assecondare la stravaganza
dell'amico e già in ufficio preparò un bigliettino con la sua
apertura. Tornando a casa si fermò a comprare i francobolli e spedì
il tutto all'indirizzo stabilito.
La risposta gli giunse tre giorni
dopo su di un nuovo cartoncino dello stesso colore trovato tra la
posta del mattino. Questa volta Philip preparò la rituale scacchiera
con tutti i pezzi schierati, sulla quale sarebbe andato a disporre le
mosse a mano a mano che il gioco procedeva.
All'inizio la partita sembrò
mantenersi in equilibrio, i giocatori si studiavano a vicenda, ma
invano Philip cercò di trovare nelle mosse dell'avversario i
caratteri riconoscibilissimi dello stile di Stanford.
Sul finire del mese di marzo si
trovava in vantaggio di tre pedoni sull'avversario, quando ricevette
una sua telefonata. Quotidiane inezie occuparono la conversazione
senza che nessuno dei due, come per tacito accordo, facesse cenno
alla partita finché Philip, non resistendo alla tentazione di
vantarsi della sua indiscussa superiorità tattica, alluse vagamente
all'argomento cercando di suscitare la reazione dell'amico. Stanford
sembrò non capire e quando Philip fu più esplicito, cadde
completamente dalle nuvole dichiarando con assoluta buona fede la sua
estraneità alla faccenda.
Philip rimase perplesso; il tono del
suo vecchio amico era assolutamente sincero ed egli sapeva bene che
invece la sua reazione a situazioni analoghe in altre occasioni era
stata diversa. In realtà Stanford faceva tanto spesso il misterioso
proprio perché era assolutamente incapace di mentire.
La mattina seguente trovò come al
solito la busta verde con la mossa dell'avversario tra la
corrispondenza, ma questa volta la guardò in modo diverso. Non era
più il gioco di un amico che gli veniva recapitato, ma un attacco
portato fin dentro casa sua da uno sconosciuto che non intendeva
rivelarsi. Questa considerazione gli procurò un certo disagio, che
aumentò quando si accorse che la mossa contenuta nel biglietto lo
privava di un pedone ad opera di un cavallo nemico. Capì di aver
sottovalutato le capacità strategiche dell'altro giocatore e che la
perdita di quel pezzo preludeva ad un assalto più complesso dal
quale non sarebbe stato facile difendersi.
Dedicò due intere serate allo
studio della contromossa, ma la sua mente era turbata anche per un
altro motivo. Un avvenimento raccapricciante aveva sconvolto il
caseggiato quella stessa mattina. La figlia della sua vicina di casa,
un’esile bambina dai grandi occhi celesti, era stata travolta in
strada dalla corsa sfrenata di un cavallo imbizzarrito che il
proprietario non riusciva a tenere. Nella primavera del 1931 erano
ancora molti i londinesi che utilizzavano il cavallo come mezzo di
trasporto, anche se un'ordinanza civica ne proibiva la circolazione
nel centro della città, riservandone l'utilizzo alle poche carrozze
che ancora si vedevano in giro.
Il giorno dopo spedì al consueto
indirizzo dell'ufficio postale la sua mossa di risposta, che però
sapeva già fiacca e d’attesa. Infatti, puntualmente la settimana
successiva, gli arrivò la contromossa che gli sottraeva un altro
pedone.
Philip tentò di convincersi che in
quella sfida non vi era nulla di strano se non l'anonimato del suo
avversario, e che la situazione si ripeteva identica a tante altre
partite giocate in passato, ma non riusciva a superare la sensazione
di estraneità e di minaccia che gli davano quei cartoncini verdi.
S’immerse più a fondo nel suo
lavoro, ma di tanto in tanto il pensiero della scacchiera che lo
attendeva a casa, s’insinuava tra le sue occupazioni provocandogli
attimi di profonda angoscia. A niente gli servì pensare che molto
semplicemente, avrebbe potuto smettere di giocare. Gli sarebbe
bastato trovare una scusa qualsiasi per non continuare la partita, ma
sebbene non sapesse a cosa attribuire quell'impressione, tuttavia
intuiva che non gli sarebbe stato consentito un ritiro.
In una profumata sera di aprile il
suo nemico lo costrinse ad uno scambio che gli costò un alfiere, e
da quel momento la partita sembrò bloccarsi in una situazione di
stallo.
Ma l'animo di Philip in quei giorni
era oppresso da ben altra perdita. Il suo vecchio amico Stanford
aveva improvvisamente deciso di liberarsi di se stesso volando giù
da una finestra del suo ufficio in Blooming Street. L'incomprensibile
suicidio rimase un mistero. Nessuno aveva mai visto Stanford allegro
come in quelle ultime settimane. Il lavoro andava benissimo e la sua
Compagnia aveva appena inaugurato una nuova filiale, non aveva avuto
discussioni in famiglia e soprattutto non lasciò nemmeno una parola
d’addio che potesse chiarire i motivi della tragica decisione.
Philip era completamente sconvolto
dalla fine dell'amico, e non riusciva a farsi una ragione del perché
questi non lo avesse cercato per chiedergli aiuto.
Ottenne un permesso in ufficio e
restò a casa per alcuni giorni.
Fu proprio allora, che per distrarsi
da quei pensieri, decise di affrontare in modo definitivo la partita
che si era arenata. S’impegnò nello studio di tutte le varianti
possibili alle mosse dell'avversario con un accanimento che non aveva
mai provato prima, e tuttavia non riusciva a venirne a capo.
Un pomeriggio, mentre cercava il
suggerimento risolutivo tra i suoi manuali di scacchistica, quasi a
dimostrare che nella vita dell'uomo niente é lasciato al caso, lo
sguardo gli cadde su di un vecchio tomo rilegato in marocchino, che
non ricordava di possedere. Era uno dei volumi lasciatigli in eredità
dal padre, che lui non aveva mai aperto: "L' ARS MAGNA " di
Raimondo Lullo.
Cominciò a sfogliarlo con curiosità
accorgendosi solo in quell'occasione che conteneva bellissime
illustrazioni a colori e delicate miniature all'inizio di ogni
paragrafo.
Sul frontespizio del terzo capitolo
lesse la frase di Ermete Trismegisto che enunciava il principio di
correlazione tra macrocosmo e microcosmo al quale si era ispirata
tutta la dottrina ermetica.
"Ciò che é in alto é uguale
a ciò che é in basso", recitava il capoverso.
Sembrava una banalità da manualetto
di alchimia, ma davanti agli occhi di Philip sembrò spalancarsi una
finestra.
In quell'istante fu folgorato dalla
corrispondenza dei fatti che avvenivano nella sua vita, con le mosse
che andavano svolgendosi sulla scacchiera. Si precipitò al cassetto
dove teneva in ordine le cartoline verdi speditegli dall'avversario e
cominciò ad inserirle tra le pagine del suo diario in modo da
ricostruire nella maniera più precisa possibile il calendario degli
ultimi due mesi.
Alla fine il quaderno era pieno dei
foglietti delle sue mosse e di quelle del nemico.
Trovò anche troppe coincidenze.
Iniziò con la morte della bambina
che abitava nel suo palazzo, travolta da un cavallo proprio il giorno
nel quale lui aveva perso un pedone, catturatogli da quel pezzo.
Continuò con il crollo della fabbrica abbandonata in fondo alla
strada dove abitava, che aveva seppellito il vecchio custode,
esattamente la mattina in cui aveva ricevuto un cartoncino che gli
aveva fatto perdere un alfiere ad opera di una torre avversaria.
Andando avanti in quel modo
ricostruì tutta una serie di morti apparentemente casuali, ma che
costellavano le sue ultime settimane di una miriade di gocce di
sangue.
Ed ora il suicidio incomprensibile
di Stanford!
La mente di Philip rifiutava di
accettare quell'idea pazzesca, ma la realtà era una serie di
impossibili coincidenze colore verde chiaro inserite tra le pagine di
un diario.
All'improvviso, si rese conto con
angoscia che l'orrore poteva non essere limitato alle mosse altrui e
che le sue decisioni determinavano le sorti del gioco al pari di
quelle dell'avversario.
Tentò di calmarsi, ragionando che
se il suo nemico disponeva di possibilità omicide di tale fatta,
fortunatamente non si poteva dire altrettanto di lui, ma pensò anche
che se il prezzo del gioco era la vita, nulla impediva di immaginare
che qualcuno si prendesse l'onere di agire anche per suo conto,
magari solo per pareggiare la posta.
Andò a rovistare nello sgabuzzino
alla ricerca delle copie di vecchi quotidiani e ammucchiatele sul
tavolo, cominciò a sfogliarle trepidamente, cercando tra le notizie
più trascurabili, in mezzo ai trafiletti più insignificanti le
prove di quella trama mostruosa che, ora lo vedeva chiaramente, era
stata ordita contro di lui e che utilizzava per i suoi
incomprensibili fini, la vita di persone qualunque, come fossero i
pezzi di un gioco di scacchi.
Alla fine di quella nottata, aveva
ricostruito la partita mossa per mossa, e si era convinto di essersi
involontariamente macchiato del sangue di vite innocenti e
sconosciute.
Fatalmente comprese che qualsiasi
difesa era improponibile, giacché l'eliminazione di un pezzo
avversario, avrebbe determinato altrove, la morte di un uomo.
Il giorno che aveva sottratto un
alfiere all'altro giocatore, un ufficiale dei Dragoni dell'Impero era
stato trovato ucciso nel suo alloggio della Scuola Cadetti di
Westminister. Una pallottola gli aveva trapassato il cranio entrando
dalla nuca e uscendo da un occhio. Si pensò ad un suicidio, anche se
piuttosto singolare, vista la posizione che avrebbe dovuto assumere
l'uomo per potersi sparare a quel modo, ma quella fu la versione
ufficiale dei fatti e la cosa venne messa rapidamente a tacere.
Philip allora era rimasto incuriosito dalla notizia, ma adesso che
gli sembrava di intravedere com’erano andate realmente le cose era
assolutamente inorridito.
Ma moltissime altre notizie
avrebbero potuto avere un legame con quella diabolica partita, e
Philip non sempre riusciva ad individuare quella sicuramente
implicata. Come poteva essere certo che l'anziana turista trovata con
il collo spezzato in una delle stanze della Torre di Londra, non
fosse stata uccisa perché lui aveva eliminato un pedone avversario
con una torre?
Più volte lo assalì il fondato
dubbio che quell’immensa mole di coincidenze fosse frutto solo
della sua immaginazione. Pensò che tutti gli avvenimenti del mondo
sono in qualche modo legati l'uno con l'altro e che questo vincolo,
segreto agli uomini, può stringere tra loro anche persone ignare
distanti miglia e miglia. Ogni gesto che compiamo può avere
conseguenze banali o terribili, ma ridurre l'universo ad una mera
concatenazione di cause ed effetti é operazione riduttiva quanto
inutile. Sostenere che tutto influisce su tutto, vuol dire negare il
principio della casualità. Pensò alle dottrine filosofiche che
insegnano che ogni avvenimento é la somma d’infinite cause
precedenti e di come questi insegnamenti potessero pericolosamente
sgravare l'uomo dalla responsabilità delle proprie azioni, o al
contrario legarlo al punto da impedirgli qualsiasi decisione.
Il libro che aveva trovato insegnava
che persino la posizione degli astri nel cielo influiva su tutta la
vita del cosmo e che tutto é legato a tutto più strettamente di
quanto possiamo immaginare.
A questo ed altro pensò Philip
Farmer quella notte, ma nessun ragionamento gli fu di conforto. Chi
avrebbe potuto convincerlo ormai di non essere una delle infinite
cause che avevano in qualche modo contribuito alla morte del suo
amico Stanford?
Scartò quasi subito la possibilità
di rivolgersi alla polizia per raccontare quello che gli accadeva,
immaginando che nessun investigatore avrebbe preso in considerazione
i suoi argomenti, ma certo non poteva continuare il gioco pensando
che una sua mossa avrebbe potuto determinare l'uccisione di un
innocente.
Capì che la partita però era ormai
troppo compromessa a suo svantaggio, e temette che rinunciare a
difendersi avrebbe significato uno scacco in poche mosse, così
decise per una strategia difensiva, nella quale avrebbe cercato di
non perdere, ma nemmeno avrebbe attaccato.
Questa situazione si protrasse
ancora per qualche settimana, e gli ci volle tutta la sua abilità ed
esperienza per arrivare alla fine di Maggio senza aver perso nessun
altro pezzo e senza averne sottratti all'avversario.
Ma si accorgeva che il cerchio si
andava chiudendo.
Il suo re era stretto d'assedio dai
pezzi nemici e qualsiasi altra mossa ormai non avrebbe potuto evitare
uno scambio. Negli ultimi tre giorni aveva cercato di concentrare
tutti i suoi sforzi nel tentativo di trovare una soluzione razionale
ad un problema assurdo, ma sentiva che i nervi stavano per cedergli,
e quando capì che lo scacco matto non era ulteriormente differibile
decise di fuggire. Si procurò un'auto a noleggio dichiarando un nome
fasullo e pagandola anticipatamente in contanti, la stipò di tutto
quanto gli parve utile ad un soggiorno lungo e disagiato e partì nel
bel mezzo della notte. Aveva deciso di rifugiarsi nel posto più
lontano da Londra che conoscesse: Dornoch, un minuscolo paesino di
pescatori di fronte alle isole Shetland.
Aveva viaggiato tutta la notte e
adesso, la piccola cittadina era davanti a lui, emergeva lentamente
dalla nebbia che si andava diradando.
In paese, cercò subito di Eddie
Munters, il guardiano del faro che sorgeva sull'isolotto alla punta
di Tarbat Ness. Lo aveva conosciuto in uno dei suoi viaggi e venne
accolto con gran cordialità. Spiegò che aveva bisogno di rimanere
completamente isolato per un lavoro importantissimo che stava
svolgendo, e alle obiezioni dell'anziano pescatore, lo tranquillizzò
mostrandogli il contenuto del bagagliaio dell'auto e assicurandogli
che se la sarebbe cavata benissimo anche senza poter comunicare con
nessuno. Ricordava che il faro non era presidiato fino alla buona
stagione, e proprio per questo lo aveva scelto, la sola cortesia che
gli chiedeva era quella di trasportarlo fin lì e di non fare parola
con nessuno della sua presenza.
Scendendo per la strada che
conduceva al porto, il vecchio si fermò ad annusare l'aria con il
naso all'insù, come un cane.
Philip lo guardò con aria
interrogativa.
- Odore di pioggia!- spiegò lui.
Infatti, nonostante il mare fosse
soltanto increspato, una riga nera all'orizzonte la diceva lunga su
quello che sarebbe stato il tempo per i giorni successivi.
- Tanto meglio - pensò Philip - se
volevo essere irraggiungibile ci sono riuscito!
Caricarono la barca con le provviste
e dopo una mezz'ora di navigazione giunsero all'attracco
dell'isolotto. Ebbero qualche difficoltà a sbarcare perché le onde
già piuttosto alte spingevano la barca contro le tavole di legno del
pontile, ma infine stanco e bagnato, Philip vide la porta di ferro
schiudersi sui primi gradini di un'angusta e ripida scalinata.
L'interno del faro era
squallidamente disadorno proprio come se lo era immaginato. In un
unico ambiente circolare erano presenti soggiorno, salotto e stanza
da letto, il tutto costituito da un tavolo di legno con quattro sedie
e una branda con un materasso che puzzava di muffa.
Ancora una volta il vecchio protestò
che non poteva abbandonare un signore come lui in quelle condizioni,
con una burrasca in arrivo, e che se fosse voluto tornare a terra non
avrebbe potuto, perché con il mare grosso neanche un pazzo si
sarebbe avventurato tra gli scogli a rischiare la vita facendosi
stracciare lo scafo per andare a prenderlo, ma Philip si mostrò
irremovibile e lo convinse a lasciarlo solo. L'uomo non insistette
oltre, anche perché il mare andava montando. Di lì a poco, infatti,
si scatenò un violento temporale.
Lentamente Philip disfece il suo
bagaglio e ancora una volta collocò i pezzi sulla scacchiera nella
posizione che ormai conosceva a memoria. Accanto, posò la busta che
aveva trovato nella cassetta della posta il mattino precedente, a
Londra.
Così lontano di casa e con il
rumore del mare in tempesta che batteva contro le pareti del faro,
gli sembrava che tutto quanto fosse accaduto nei mesi precedenti
fosse solo un incubo partorito dalla sua mente, ma la presenza della
lettera accanto alla scacchiera lo riportava alla realtà.
Allora cominciò a convincersi di
aver sognato tutto, che la morte di Stanford lo aveva sconvolto, che
le parole di quel maledetto libro non significavano nulla e che
probabilmente aveva affrontato quell'inutile viaggio solo perché era
un idiota matricolato.
L'unico risultato apprezzabile di
quella follia era che adesso si trovava perduto su di uno scoglio in
mezzo ad un fortunale, senza avere alcuna possibilità di poter
tornare a terra e senza che alcuno potesse raggiungerlo almeno per
altri quattro giorni.
Il mare che batteva incessantemente
contro lo scoglio tuttavia non era il miglior calmante per i suoi
nervi, e Philip andò a sdraiarsi sul giaciglio umido nel tentativo
di prendere sonno. Stanco delle ore passate al volante, si addormentò
pesantemente. Durante la notte la tempesta assunse la violenza di un
uragano, il mare scagliava contro il faro masse d'acqua gigantesche
che s’infrangevano sulla pietra con un rumore sordo che percorreva
l'intera struttura della torre. Philip era immerso nel sogno di un
mare quadrato come una scacchiera, sul quale scivolavano i pezzi di
un gioco mortale.
Ad un colpo più forte degli altri
si svegliò in preda all'angoscia più profonda. Dall'unica finestra
poteva vedere la luce del faro sciabolare sull'acqua nera illuminando
le creste delle onde, e rifrangersi nella nebbiolina degli spruzzi
che saliva fino a lui. Rimase a guardare allucinato il mare in
tempesta, in attesa della luce liberatrice del giorno, ma come spesso
accade, gli incubi peggiori sono quelli che si fanno da svegli.
Un'alba grigia e fredda lo trovò
seduto al tavolo, fissava la scacchiera e la busta chiusa.
La notte era passata, ma il mare
infuriato continuava a schiaffeggiare le pareti del faro con immutata
violenza.
Si sentiva spossato dalle ore
d’insonnia, e con lentezza si accinse ad aprire la lettera nella
quale sapeva esserci un cartoncino verde con l'inevitabile mossa. La
solitudine non gli alleviava il peso dell'indifferibile sconfitta e
con rassegnazione pose il pezzo nella casella destinata. Lo scacco
matto era ormai sotto i suoi occhi, nulla avrebbe potuto modificarlo.
Posò il cartoncino sul tavolo ma nel fare quel gesto si accorse che
sul retro del biglietto era stata vergata con inchiostro rosso una
frase.
Era tratta dall'"ARS MAGNA "
di Raimondo Lullo, che parafrasando l'Ecclesiaste diceva: "
Esiste un tempo per ogni cosa, anche un tempo in cui i tempi si
congiungono".
Fu in quell'istante che tra il
fragore delle onde udì distintamente battere alla porta.