L'episodio che vorrei narrare,
accadde alcuni anni fa (potrei dire troppi) nell'afosa mattina di
un'estate implacabile, ma l'impressione che mi suscitò perdura
intatta nonostante il passare del tempo.
Nel mese di Luglio di quell'anno,
avevo raggiunto non senza difficoltà, moglie e figlio in vacanza
nell'isola d'Ischia per un fine settimana familiare, che nascondeva
la segreta ambizione di riuscire a dormire per due giorni interi.
Speranza che svanì regolarmente alle otto del mattino successivo,
orario in cui la mia esigua famiglia è già tutta in piedi,
indifferente al mutare delle stagioni.
La giornata si annunciava molto
calda già dalle prime ore del mattino.
Il cielo terso era di una limpidezza
abbacinante, ma al livello del mare una coltre di umidità avvolgeva
cose e persone in una foschia densa, collosa.
Tentai inutilmente di trattenermi
nella frescura mattutina della nostra camera, ma fui costretto invece
a seguire le mute indicazioni impartite dagli occhi inflessibili
della mia consorte, che sollecitavano maggiori attenzioni nei
riguardi del pargolo, orbo del padre da ben due settimane.
Mi fu imposto dunque l'inutile
sacrificio di accompagnarlo in spiaggia per tenergli compagnia.
Naturalmente, appena messo piede sulla sabbia, Massimo schizzò via
fra le gambe dei bagnanti per raggiungere chissà dove quali altri
ragazzi, visto che nei giorni della mia assenza, si era certamente
procurato amici della sua età di gran lunga più interessanti di suo
padre.
L'aria vibrava per il calore, aveva
una pesantezza, uno spessore quasi palpabili, opprimenti, la inalavo
a fatica.
Con gli occhi ridotti a fessure
cercai il mare, la cui presenza poteva soltanto essere postulata,
dato che era assolutamente impossibile scorgere l'acqua attraverso la
sterminata foresta di ombrelloni.
Il sole di luglio aveva trasformato
la spiaggia in una fornace ardente dove centinaia di persone si
rosolavano unte come würstel, badando bene a rigirarsi di tanto in
tanto per cuocersi omogeneamente in ogni punto del corpo. Su tutto
aleggiava un penetrante odore d’olio solare che sapeva di cocco,
bergamotto, mandorle e mallo di noce.
Sospirai, giacché sapevo che il
fastidio causatomi dal caldo, dalla sabbia bollente e dal lucore
diffuso dai corpi lucidi si sarebbe in breve trasformato in un
sottile supplizio, e ciabattai verso il lato della spiaggia dove
presumevo si trovasse l'atollo di frescura del nostro ombrellone.
La luce mi trafiggeva gli occhi
dolorosamente. In effetti, sono notoriamente fotofobico e quella
mattina, nel prendere dal comodino gli occhiali da sole, me li ero
lasciati sfuggire di mano fracassando una delle lenti; economia di
poca consolazione, giacché ai fini dell'utilizzo equivaleva ad
averle rotte entrambe.
Per questo motivo, dopo aver
lasciato la passerella di cemento, adesso procedevo quasi a tentoni,
cercando di poggiare i piedi nelle pozze d'ombra altrui, ostacolato
da una miriade di arti distesi e dal riverbero della sabbia bollente.
Il telo della sdraio era già
fastidiosamente caldo dal momento che un solerte bagnino, disponendo
con pazienza certosina e sicuramente in ore più fresche un'accurata
geometria di sedie, lettini prendisole e quant'altro gli consentisse
lo sfruttamento intensivo di ogni centimetro quadro di arenile, aveva
giudicato opportuno collocare le nostre uniche comodità in pieno
sole. Trascinai una sedia all'ombra sotto gli occhi sprezzanti dei
vicini, che avevano indovinato in me il classico marito da week-end,
una sorta di stralunato fantasma che appare il venerdì sera e
sparisce alle prime luci del lunedì mattina, perennemente
semiaddormentato e, come si addice ad uno spettro, bianco come un
lenzuolo.
Incurante degli sguardi, sedetti e
tirai fuori della borsa un libro che mi ero portato perché
leggendolo mi accompagnasse ai margini del sonno, ma capii subito che
non mi sarebbe riuscita né una cosa, né l'altra. Le parole mi
ballavano davanti agli occhi. Il fracasso continuo prodotto dalle
centinaia di bagnanti che affollavano la spiaggia, copriva persino il
rumore del mare.
Ciò nonostante provai ad immergermi
nella lettura cercando di ignorare la bolgia infernale di bambini,
palloni, radioline, racchettoni e venditori ambulanti che mi si
accalcava intorno.
Il libro raccontava di un montanaro
che per tutta la vita sognò vanamente di vedere il mare.
Mi guardai attorno e convenni che in
effetti, non si è mai dove si vorrebbe essere.
Un venditore ambulante si fermò
proprio davanti all'ombrellone.
Come un muezzìn lontano da casa,
intonò una litania che avrebbe dovuto convincermi a comprare
qualcosa di cui non avevo alcun bisogno. Alzai il libro davanti alla
faccia con un gesto antipatico quanto esplicito, ma insufficiente a
scoraggiarlo. Sotto il margine inferiore del volume potevo scorgere i
suoi piedi infilati nei sandali e le gambe magre e scure. Si accorse
di quella feritoia e si accovacciò, guardandomi di sotto in su con
la testa inclinata, come a volte fanno i bambini.
- Amico, non può essere che Hamed
non ha qualcosa che ti serve!
Abbassai il libro rassegnato al
contraddittorio, ma fermamente intenzionato a smentire l'asserzione.
La cosa però non si rivelava
semplice visto che l'uomo esibiva un campionario di chincaglieria da
far concorrenza ad un supermercato di provincia. Aveva poggiato per
terra un gran cesto ricolmo di affarini coloratissimi: pettini,
fermacapelli, specchi, foulard, ed altri articoli "da spiaggia",
inoltre teneva in mano una sorta di panoplia dove erano esposti
orologini di plastica ed occhiali da sole di tutte le fogge.
- Mi dispiace - spiegai - ma non mi
occorre niente.
Nel sorriso d'avorio che mi regalò
avrei potuto contare cento denti.
- Questo è possibile, ma Hamed ha
tutto! - ribatté lui con logica stringente.
Non so perché ma in quel momento
pensai che mentre io ero in vacanza, quell'uomo davanti a me stava
lavorando, e che se a lui era costato molto lasciare il Marocco o la
Tunisia per venire a esercitare un mestiere che nessun italiano
avrebbe fatto, a me sarebbe costato molto poco comprargli qualcosa
per aiutarlo ad andare avanti.
Sembrava quasi che mi avesse letto
nel pensiero, perché i suoi occhi acquosi guardarono l' "espositore"
degli occhiali da sole, e dopo una rapida scelta, mi consegnò quelli
che a suo giudizio erano giusti per me.
Non trattai il costo né il modello,
mi bastava che proteggessero a sufficienza dalla luce da evitarmi di
lacrimare e che costassero tanto poco da non farmi riflettere se
valessero il prezzo richiesto.
Hamed se ne andò soddisfatto sul
suo passo dondolante e in un istante sparì, assorbito dalla folla,
solo rimaneva nell'aria il suono della sua voce cantilenante, ma
anche quello si sfilacciò tra gli odori e i rumori della spiaggia.
Mi venne da pensare al gatto del Cheshire di Alice, del quale restava
il sorriso anche dopo che era scomparso.
Considerai senza troppa attenzione
il mio forzato acquisto.
Gli occhiali erano molto leggeri,
con lenti e montatura di plastica nera, sembravano uno di quegli
oggettini omaggio che vengono incellofanati insieme alle riviste
femminili.
Assolvevano in ogni caso al loro
modesto compito di moderare la violenza della luce, e tanto mi
bastava. Li inforcai e ricominciai la mia lettura. Non avevo
terminato la prima pagina che udii accanto a me la voce di Giovanna.
- Dov’è Massimo?
- E' andato con i suoi amici. Credo
alla cabina dei De Simone.
Si sfilò un leggero prendisole e lo
appese alle stecche dell'ombrellone, poi si sdraiò sul lettino che
era rimasto al sole e cominciò ad ungersi meticolosamente.
Giovanna è fatta così, per lei
l'abbronzaggio è un lavoro.
Pur essendo già di un bel colore
ambrato, quotidianamente la sua attività in spiaggia è limitata al
fatto puro e semplice di stare immobile al sole come una lucertola.
Gli unici movimenti che compie sono quelli indispensabili per
sostituire la sigaretta che le pende perennemente accesa tra le
labbra, o per cambiare la cassetta nel walkman. Per il resto, passano
ore senza che dica una parola. Un tipo di gran compagnia, insomma.
Quel giorno, prima di interrompere i
suoi contatti con il mondo esterno infilandosi la cuffia nelle
orecchie mi gratificò di qualche banalità, aggiornanadomi sulle
ultime notizie di cronaca rosa e sui pettegolezzi che circolavano in
spiaggia, confermando la mia convinzione che l'argomento principale
dell'estate saranno sempre e unicamente le corna. L'ascoltavo
distrattamente, interessato più che a quelle storie, ad una bambina
bionda che, pochi metri più in là, si dava un gran daffare a
riempire d'acqua una buca. Avrà avuto al massimo due anni, e
indossava un minuscolo costumino giallo che a stento le copriva il
culetto. Con un secchiello in mano, correva infaticabilmente tra la
riva del mare e il punto in cui aveva scavato, affannandosi a
versarci l'acqua che in qualche secondo spariva, assorbita dalla
sabbia.
Dopo Massimo avrei voluto un altro
figlio, e non so perché l'avevo sempre immaginata femmina. L'avremmo
chiamata Chiara e sarebbe stata una palletta morbida con i codini,
proprio come quella, ma Giovanna su questo punto si era dimostrata
sempre irremovibile e così mi accontentavo di fantasticare sulla
prole altrui.
- Ma mi stai ascoltando? - chiese.
- Si, ma... scusami, mi ero
distratto un attimo.... stavi dicendo?
- Ho chiesto dove hai preso quegli
occhiali da sole.
- Ah, così…. li ho comprati da
un'ambulante.
In quel momento la bambina cadde
rovesciando tutta l'acqua del suo secchiello. Rimase seduta sulla
sabbia.
- Saranno una schifezza, non sai che
ti possono rovinare la vista? Fa’ un po' vedere….
Mi sfilai le lenti e gliele porsi.
Davanti a me la bambina con i codini cadde spargendo l'acqua che
trasportava nel secchiello, e rimase seduta a ficcare le dita
grassocce nella crosticina di sabbia bagnata che si andava formando.
Qualcosa non funzionava.
Intendo dire che la piccolina non
era caduta di nuovo, ma aveva fatto la stessa caduta di poco
prima, o per meglio dire, da come mi stavo rendendo conto, ero io che
avevo osservato due volte il medesimo capitombolo.
- E quanto li hai pagati? - domandò
Giovanna, provandosi gli occhiali.
- Uhm...non mi ricordo di preciso.
- Come fai a non ricordartelo se ce
li hai da pochi minuti? E come mi stanno?
Quella conversazione inutile aveva
il solo risultato di impedirmi di pensare a quello che avevo visto.
Infastidito risposi:
- Sembri uno dei Blues Brothers,
ridammeli!
In effetti, il contrasto tra l'ombra
e la luce troppo violenta cominciava a farmi lacrimare nuovamente, e
poi non riuscivo a vedere che cosa stesse facendo la bambina.
Con gesto sgarbato Giovanna mi
lanciò gli occhiali. Li presi al volo e li osservai con maggiore
attenzione. Non avevano nessuna scritta, né marca o luogo di
fabbricazione. Parevano del tutto simili a qualunque paio di polaroid
si possano trovare in qualsiasi tabaccheria di Ischia. Me li rimisi
sul naso e provai a leggere.
Tutto normale. Guardai verso
l'ombrellone di Chiara, ma doveva essere tornata sulla battigia a
riempire il secchiello. Allora tentai con un soggetto più lontano,
un surfista che scorgevo nell'unico spicchio di orizzonte libero allo
sguardo.
L'uomo filava attaccato alla vela
sospinta da un esile filo di brezza, ma bastava che alzassi gli
occhiali dal naso perché mi apparisse diversi metri più indietro.
Ricordo distintamente che la prima
impressione che ebbi fu che si trattasse di uno sfasamento spaziale
e non temporale, ma mi bastò poco per capire che le lenti non
comportavano uno scartamento sulle distanze tra gli oggetti o sulla
loro prospettiva, semplicemente mi mostravano le cose non dove esse
si trovavano, ma nel punto dove sarebbero state di lì a poco!
Tutto questo era assolutamente
impossibile e io lo sapevo perfettamente. Ciò non di meno accadeva,
e per la verità mi preoccupava anche un tantino: é difficile
stabilire se preferisci che ti funzionino male gli occhi o il
cervello.
La verità è che faceva troppo
caldo, mi sembrava che i miei stessi pensieri rallentassero,
invischiati nell'aria salsa e appiccicosa. Non riuscivo a pensare con
lucidità e facevo fatica a ragionare, tuttavia quello che succedeva
era troppo strano perché rinunciassi a tentare di capirlo.
Eseguii discretamente qualche
esperimento. Sono certo che se qualcuno avesse notato con che
continuità mettevo e toglievo gli occhiali da sole, avrebbe
sospettato qualche problema psichico più che ottico, ma nella
confusione della spiaggia nessuno faceva caso a quello che combinavo.
Giovanna poi, era completamente assorta nella sua attività di
abbronzista a cottimo e l'unico suo segno di vita palese era il filo
di fumo che le usciva dalle narici, mentre la sigaretta si
trasformava in un tubetto di cenere.
Naturalmente mi era impossibile
persino concepire il funzionamento di quelle lenti, nondimeno
nell'assurdità della situazione esse sembravano obbedire ad una
qualche legge fisica. Tanto per cominciare lo sfasamento temporale
dipendeva direttamente dalla distanza tra l'osservatore e l'oggetto.
Girando le pagine del libro che avevo in mano, avrei dovuto vedere le
mie mani compiere l'azione alcuni istanti prima che questa avvenisse,
ma non succedeva niente. A distanza di qualche metro, il tempo di
precognizione era di qualche frazione di secondo, ma si allungava se
inquadravo oggetti più lontani. Stando così le cose immaginai che
avvicinandomi al soggetto, avrei dovuto vedere una specie di film
all'incontrario, con le persone che ritornavano al loro posto, dove
le avrei trovate sfilandomi gli occhiali una volta raggiunte.
Ma quando a fatica mi alzai per
avvicinarmi a qualche ignaro bagnante, mi accorsi che mano a mano che
avanzavo le immagini coincidevano con la realtà, quasi che la mia
velocità rallentasse i movimenti altrui.
L'aria irrespirabile e la sabbia
bollente mi respinsero nel cerchio d'ombra, convincendomi a desistere
da ulteriori esperimenti.
Mi ricordai dei vari paradossi
temporali, degli innumerevoli romanzi di fantascienza impostati sulle
macchine per viaggiare nel tempo, e rammentai il disappunto di
Borges, che in un'intervista si rammaricava di essere impotente a
dimenticare gli episodi più insignificanti e lontani della sua
infanzia, ma incapace di guardare in avanti di un solo minuto.
Tra il fiume temporale dei filosofi
greci studiato al liceo e gli esercizi di fantasia degli autori
contemporanei, un racconto mi era rimasto impigliato nella memoria:
dove si immaginava la realizzazione di una qualità di vetro così
denso che un raggio di luce che ne avesse colpito una lastra avrebbe
rallentato al punto di riemergere dall'altro lato solo dopo molto
tempo. Esponendo questi vetri a paesaggi spettacolari per qualche
anno, si sarebbe potuto avere in casa un quadro mutevole, nel quale
il sole sorgesse e tramontasse tutti i giorni, gli uccelli migrassero
verso sud e dal quale filtrasse la luce di giorni lontani.
Ai miei occhiali capitava il
contrario, come se fossero stati capaci di accelerare la luce al
punto di farla arrivare prima di essere partita.
Mi sentivo la testa scoppiare, ma mi
guardai bene dall'attirare l'attenzione di Giovanna e decisi di
tornarmene in camera, dove l'aria meno rovente mi avrebbe rinfrescato
il cervello. Purtroppo in quell'istante ritornò Massimo con tutta la
ciurma dei suoi amici. Insieme agli sciagurati genitori di questi
ultimi, avevano deciso di affittare dei pattìni per andare a fare il
bagno al largo.
Tralascio di raccontare come fui
costretto a partecipare a quella disgraziata iniziativa, basti solo
dire che in nel momento della massima confusione d’urla e spruzzi,
mentre eravamo davanti Punta S. Francesco, gli allegri coniugi De
Simone mi spinsero in acqua e lì persi gli occhiali. M’immersi più
volte nella speranza di riuscire a ripescarli, ma non ci fu niente da
fare. Non ebbi neppure la possibilità di incazzarmi più di tanto,
visto che tutti si erano accorti che si trattava di un oggettino da
due lire.
Così finì banalmente il mio sogno
di prevedere il futuro.
Da quel giorno ho pensato spesso
all'ambulante che mi vendette quelle lenti, ma benché mi sforzi, non
riesco a ricordare niente di magico nel suo aspetto né in quello
degli occhiali. Mi consolo pensando che non avrebbero avuto
nessun’utilità pratica, ma sarebbero stati soltanto un’inquietante
corruzione all'ordine naturale delle cose.